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‘Società’ Category

14 Aprile 2023 – Redazione

 

Si è spenta la mattina del 13 aprile 2023, all’età di 93 anni, nella sua casa del Surrey. “Serenamente”, hanno fatto sapere i familiari. Mary Quant non c’è più, ma resterà sempre. Per ciò che ha dato al mondo della moda e a tutte le donne. Il suo nome è inevitabilmente associato alla minigonna: è stata proprio lei a lanciarla, nel 1963, anche se più di qualcuno attribuisce invece la rivoluzionaria intuizione ad André Courrèges. Una querelle cui la stilista britannica non ha mai dato peso, e che anzi ha più volte provato a smorzare: “Non sono stata io a inventarla e non è stato Courrèges, ma la strada”. Ovvero le tante ragazze che esprimevano il desiderio di indossare gonne molto più corte rispetto agli standard di allora, per muoversi più liberamente ma anche mandare un messaggio – di emancipazione e indipendenza – forte e chiaro.

In ogni caso, la Quant è stata la prima a mettere in vendita minigonne, esponendole con fierezza nelle vetrine della sua boutique Bazaar in King’s Road, a Londra. Ma non è questo, sia pur molto importante, l’unico motivo per cui anche a lei spetta un posto d’onore nella storia del costume.

UN’ANIMA RIBELLE

Barbara Mary Quant è sempre stata una ribelle, fin dall’adolescenza. È nata nel febbraio 1934 in un sobborgo londinese, i suoi genitori erano professori e avrebbero voluto che lei intraprendesse la medesima strada. Un pensiero invece inaccettabile per Mary, che a soli 16 anni è andata a vivere da sola a Londra.

Qui – era il 1954 – ha conosciuto Alexander Plunket Greene, rampollo di una famiglia nobile; i due si sono innamorati e hanno cominciato a condurre una vita bohemien. Se ne infischiavano di regole e convenzioni, inseguivano l’estrema libertà, amavano la mondanità, viaggiavano il più possibile, si vestivano solo in base ai loro gusti e a prescindere da qualsiasi moda.

L’anno successivo Alexander ha compiuto 21 anni ed ereditato un’ottima somma di denaro per cui, anche con l’aiuto del fotografo Archie Mc Nair, i due hanno comprato un immobile sulla King’s Road, ricavando un piccolo ristorante dallo scantinato e adibendo a boutique il primo piano. Mary ha toccato il cielo con un dito.

VULCANICA E AUTODIDATTA

I primi tempi Mary Quant e Alexander Plunket Greene, nel frattempo diventato suo marito, vendevano indumenti acquistati all’ingrosso. Lei, però, non era affatto soddisfatta di quella merce. E, soprattutto, i suoi gusti e le sue idee in fatto di moda andavano in direzioni nettamente diverse. Così ha deciso di far da sola, iniziando un percorso da autodidatta; ha frequentato corsi serali di modellista, di taglio e cucito. Ed è stata la svolta.

Perché nello stesso momento in cui ha potuto creare ciò che le piaceva davvero, nonché esaudire le richieste altrui, la boutique è diventata il punto di riferimento di moltissimi giovani britannici, tutti desiderosi di rompere col passato, allontanarsi dalla tradizione, esprimersi più liberamente; tutti assetati di anticonformismo e novità. Mary, che per molti versi è stata “modella di se stessa”, è diventata un’icona indiscussa della Swinging London.

LA SUA MODA

Mary Quant rappresentava perfettamentelo spirito anticonformista e innovativodella Swinging London, sia con i capi che vendeva che con i suoi outfit. Distanti anni luce da quelli dell’haute couture; molto più easy, pratici, ironici. Liberi. E, cosa tutt’altro che secondaria, economicamente accessibili.

Oltre alla minigonna, lanciò i minidress in jersey, gli stivali di gomma e quelli dal tacco largo, gli impermeabili in pvc, i pullover aderenti a coste. I collant colorati, imprescindibili. Diede inoltre un notevole contributo allo sdoganamento di molti indumenti “maschili”: dai pantaloni alle camicie passando per il papillon. Ha sempre avuto un debole per il gilet, che tutt’ora per lei è un must.

IL BOWL CUT

Possiamo definire Mary Quant anche una pioniera del self branding? Eccome. Ha sempre curato la sua immagine in ogni dettaglio, “usandola” per dettare tendenze e veicolare messaggi ben precisi. Che coincidevano tutti con la concezione di una donna… in cammino. Stufa di restare ferma e lasciarsi condizionare dai dettami di una società maschilista.

Mary è stata anche tra le prime arilanciare il bowl cut, ovvero il taglio di capelli a scodella; nato nel Medioevo per identificare le “peccatrici”, diventato poi vessillo di ribellione grazie a Giovanna d’Arco e amato negli anni Venti, sia pur con una connotazione molto più easy, era poi praticamente scomparso. Per riemergere con prepotenza proprio negli anni Sessanta, diventando uno dei più eloquenti simboli del movimento femminista.

Nel 1963 Mary si è rivolta a Vidal Sassoon, hairstylist estroso, appassionato di geometrie e per molti versi avanguardista, e ha trovato in lui il complice perfetto. Il risultato è stato un taglio cortissimo, un po’ bombato, con frangia e 5 punte. Che non ha mai perso appeal e ciclicamente riconquista il suo posto tra le tendenze più glam.

NON SOLO INDUMENTI

Forte di un successo che aumentava senza soluzione di continuità, e al quale ha notevolmente contribuito anche Twiggy, la sua modella prediletta, destinata a diventare presto una celebrità e a sua volta innamorata della minigonna, nella seconda metà degli anni Sessanta Mary Quant ha alzato il tiro.

Ha aperto un secondo negozio in Brompton Road e creato la Ginger Group, una label ancora più economica pensata per dare il via alle vendite negli Stati Uniti. Dopo di che, ha cominciato a muoversi in altri campi: al ’66 (anno in cui è stata nominata dalla Regina Elisabetta II Cavaliere della Corona Britannica) risale il lancio della sua linea di cosmetici, che comprendeva il primo, “miracoloso” mascara waterproof; al ’67 quello di una collezione di scarpe. Negli anni Settanta, animata da una creatività poliedrica e davvero inesauribile, ha debuttato anche nel settore dell’interior design. Negli anni Ottanta e Novanta ha pubblicato diversi libri sul make up.

GLI ULTIMI ANNI

L’età si faceva sentire, ma il suo sguardo non ha mai perso quel guizzo e quella vivacità che l’hanno sempre contraddistinto. Nel settembre del 2019 è stata insignita del Lifetime Achievement  ai World Fashion Awards, in quanto modello per le donne lavoratrici ma anche per il suo ruolo nell’epoca del femminismo e il segno indelebile lasciato nell’universo fashion: “È un onore – ha commentato lei – ricevere questo premio ed è stato un privilegio aver trascorso la vita facendo ciò che amo e che mi ha sempre divertito, anche con persone dotate di grande talento e passione”.

In quello stesso mese, presso il Victoria & Albert Museum di Londra, è stata allestita la prima retrospettiva internazionale a lei dedicato. Nel dicembre 2021 è uscito Quant, un documentario realizzato da Sadie Frost, che ripercorre tutta la sua storia.

Fonte: Womfashion (Nadine Solano)

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11 Aprile 2023 – Redazione

 

QUANTE VOLTE CI SIAMO CHIESTI COME E QUANDO LA POLITICA SI SIA INTRODOTTA A GAMBA TESA NELLA COMUNICAZIONE DELLA RAI ( ALLA QUALE PAGHIAMO UN COSPICUO CANONE ANNUALE)  IMPEDENDO LA DIVULGAZIONE DELLA VERITÀ NELLA SUA INTEGRITÀ E INTEREZZA, O, IN ESTREMA RATIO, OMETTENDONE IL SUO RACCONTO. NON È SEMPRE STATO COSÌ. TUTTO COMINCIÒ NEL 1975, ANCHE SE LE APPARENTI INTENZIONI DI ALLORA, NON SEMBRAVANO ESSERE QUELLE CHE POI SI SONO RIVELATE! E IN QUESTI TRE ANNI DI PDICOPANDEMICO DELIRIO, IL GIORNALISMO ISTITUZIONALE HA SAPUTO DARE IL PEGGIO DI SE’ SENZA RISERVE!

BUONA LETTURA

Marzia MC Chiocchi

 

 

Spartizione di incarichi e di posizioni di potere sulla base dell’appartenenza politica e a prescindere da requisiti di professionalità e di merito. È un’attività generalmente attribuita ai partiti politici e riguarda soprattutto il mondo dell’informazione. L’espressione, tipica di un fenomeno conosciuto anche in altri Paesi, nasce o almeno si diffonde, in Italia, dopo la riforma del sistema radiotelevisivo pubblico del 1975. Con quel provvedimento si voleva salvaguardare l’autonomia del servizio pubblico radiotelevisivo dal Governo, ponendo la RAI sotto il diretto controllo del Parlamento. Nelle migliori intenzioni del legislatore, le reti e testate radio-televisive avrebbero potuto confrontarsi tra di loro in un regime di libera concorrenza. Si registrò invece il massiccio intervento dei partiti che si esercitò in un vero e proprio potere di nomina dei direttori e dei responsabili delle reti e testate radio-televisive, nonché in una attività di spartizione determinata dal peso di ciascuna forza politica. In quel periodo era notorio che il TgUno fosse di appartenenza democristiana, il TgDue di appartenenza socialista e il TgTre di appartenenza del Partito comunista italiano. La stessa regola valeva anche per le testate radiofoniche: il GrUno al PSI, il GrDue alla DC e il GrTre di area laica e socialdemocratica.

Nella sua peggiore manifestazione la legge si configurò anche come pratica di assunzioni, nomine e promozioni fatte in base all’appartenenza politica dei beneficiati piuttosto che sulla loro professionalità. Pur essendo riferita prioritariamente alla Rai, la regola non risparmiò molti altri settori dell’editoria e del giornalismo in Italia. Ciò rese senz’altro più difficile l’esercizio della professione giornalistica secondo le regole della deontologia professionale, limitò l’autonomia delle singole testate, assoggettò la libertà personale di chi occupava indebitamente un posto di potere alle pressioni di questo o di quel partito, di questo o di quell’uomo politico.
L’espressione è stata parzialmente accantonata nei primi anni Novanta, soprattutto dopo la crisi dei partiti politici seguita all’inchiesta su Tangentopoli. In quel periodo il consiglio di amministrazione della Rai venne ridotto a soli cinque membri nominati dai presidenti di Camera e Senato; vennero unificate le tre testate radiofoniche; si cominciò a parlare di par condicio, cioè di pari dignità di accesso di tutte le forze politiche al mezzo radio-televisivo; cominciò a farsi strada con forza il problema dell’antitrust, cioè delle restrizioni alla concentrazione di testate giornalistiche nelle mani di un solo editore; si accentuò il dibattito sul conflitto di interessi, in seguito all’impegno politico dell’imprenditore Silvio Berlusconi, proprietario di tre televisioni nazionali. Si sentì parlare in quel periodo di ‘delottizzazione’, cioè di progressivo abbandono delle pratiche lottizzatorie.

Oggi si ritiene che la lottizzazione non venga più esercitata con la sistematicità di un tempo. ( A PAROLE SCRIVIAMO NOI ). Nelle nomine e nelle promozioni si tiene tuttavia ancora conto di una certa appartenenza ‘d’area’ che garantisca in qualche modo la maggioranza di Governo e la sua opposizione.
L’affermarsi delle scuole di giornalismo e le assunzioni di giornalisti per concorso possono contribuire ad affrancare dalla lottizzazione l’accesso alla professione dei giovani giornalisti? Mah!!!

Fonte:

Come citare questa voce
Preziosi Antonio , Lottizzazione, in Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (10/04/2023).
Il testo è disponibile secondo la licenza CC-BY-NC-SA
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10 Aprile 2023 – Redazione

 

Il lunedì dopo la Pasqua, chiamato Pasquetta o Lunedì dell’Angelo, è considerato un giorno di festa e rappresenta un momento importante dal punto di vista religioso. Notoriamente in Italia si è soliti festeggiare in compagnia degli amici, con gite fuori porta, passeggiate in mezzo alla natura e non solo. Ma perché si chiama così e qual è l’origine di questa festa? Scopriamolo assieme in questo articolo!

L’origine del nome e della festa 

La domenica di Pasqua è il giorno in cui si celebra la resurrezione del Signore e rappresenta una delle feste più importanti per i cristiani. Il giorno seguente, il lunedì di Pasquetta o il Lunedì dell’Angelo, è dedicato all’episodio che ci viene raccontato nel Vangelo, secondo cui le donne si recano al sepolcro di Gesù dopo la sua morte. Una volta giunte sul posto, non trovano il corpo del Signore ma un Angelo che le aspetta. In questo momento le donne ricevono la grande notizia con le parole dell’Angelo:

“Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto.”

Un messaggio semplice e importante che racchiude in sé la notizia più bella, Gesù è risorto. Un giorno così gioioso non poteva che essere ricordato e celebrato nella religione cristiana ed è per questo che uno dei nomi di questa giornata è proprio Lunedì dell’Angelo, in onore dell’incontro tra le donne e l’Angelo.

Ma questo non è l’unico nome, a volte si sente parlare anche di Lunedì di Pasqua. La ragione è molto semplice. Questa espressione nasce dal fatto che la festa di Pasqua dura otto giorni, l’Ottava di Pasqua. Il lunedì è considerato dunque un proseguo della Pasqua e un suo prolungamento, ecco perché viene chiamato anche Lunedì di Pasqua.

E il termine Pasquetta?

Si tratta di una tradizione popolare. Questo termine infatti è una rivisitazione del nome Pasqua, un vezzeggiativo che indica questo giorno come una piccola Pasqua. Un giorno di gioia e di festa ma non importante come la domenica e per questo si discosta dal suo significato religioso. Oggi rappresenta un giorno ricreativo e festivonella tradizione civile, accompagnato da feste e scampagnate in compagnia degli amici.

Come si festeggia il Lunedì dell’Angelo

La Pasquetta non è una festa di precetto ma viene celebrata ogni anno in tanti modi diversi a seconda della regione. Nei comuni italiani possiamo assistere a cortei e celebrazioni religiose, come ad esempio l’incontro tra Gesù Risorto e Maria, un rituale che accompagna questa giornata nel comune di Mongiuffi Melia a Messina, dove la statua di Gesù Risorto parte dalla Chiesa di San Sebastiano mentre quella di Maria coperta da un velo nero parte dalla Chiesa di San Nicolò di Bari. Quando le due statue si incontrano al “Piano degli Angeli”, il velo nero della Madre Vergine viene sostituito con uno bianco e viene incoronata con i fiori colorati. L’incontro è accompagnato dal canto degli “angeli di Maria”, le voci dei bambini del paese tra i 5 e i 10 anni.

A Santa Venerina, in provincia di Catania, in occasione di questa giornata vengono aperte le tre cappelle in cui si svolgono le celebrazioni eucaristiche: Maria Santissima del Carmelo, Madonna delle Grazie e Santa Venera.

Anche all’estero si festeggia il Lunedì dell’Angelo. In Polonia ad esempio, la tradizione vuole che gli uomini inseguano le donne per fare scherzi d’acqua, mentre negli Stati Uniti si scatena la caccia alle uova nel giardino della Casa Bianca.

Tra tradizioni popolari e religiose, questa giornata ci consente di prolungare i festeggiamenti della Resurrezione di Gesù, con il cuore pieno di gioia per questo grande avvenimento.

 

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09 Aprile 2023 – Redazione

La festività cristiana cambia ogni anno per seguire le fasi lunari in un intricato complesso di moti astronomici e convenzioni ecclesiastiche.

Domenica 9 aprile cade la Pasqua per l’anno 2023. La scelta della data della Pasqua è variabile di anno in anno in un modo apparentemente aleatorio. Eppure, le ragioni di questa variabilità sono da ricercare nel cielo. Era il 325 quando si tenne il Concilio di Nicea, nel quale tra le altre cose fu scelto il metodo con cui, da allora in avanti, sarebbe stata scelta la data della Pasqua cristiana. La regola è apparentemente semplice: la Pasqua si festeggia la prima domenica dopo la prima Luna piena di primavera, che nel 2023 cade non a caso il 6 aprile. La realtà, però, è che l’applicazione di questa regola è tutt’altro che semplice e prevede un grande numero di eccezioni e casi particolari.

Il Concilio di Nicea I

fu il primo concilio ecumenico cristiano che si tenne nella città di Nicea, in Bitinia, nella primavera del 325 d.C. Fu convocato e presieduto dall’imperatore Costantino e vi parteciparono centinaia di vescovi da tutto il mondo. Tra le varie decisioni prese in quell’occasione ci fu, appunto, quella sulla scelta della data della Pasqua cristiana.

Nei vangeli, l’ultima cena avviene il giorno prima dell’inizio della Pasqua ebraica, che si festeggia a partire dal quattordicesimo giorno di Nissàn, il settimo mese del calendario lunare ebraico, e per i sette giorni successivi. Come tutti i mesi del calendario lunare, Nissàn inizia con la Luna nuova, il momento opposto alla Luna piena in cui il Sole illumina la faccia nascosta della Luna. Dalla Luna nuova, la porzione della faccia rivolta verso la Terra illuminata dal Sole cresce (Luna crescente) fino a raggiungere la Luna piena 14 giorni dopo, per poi decrescere (Luna calante) fino a fine mese lunare in cui la Luna torna nuova.

La resurrezione di Cristo festeggiata dalla Pasqua cristiana sarebbe avvenuta tre giorni dopo la sua morte, pertanto 17 giorni dopo la luna nuova del mese di Nissàn. La resurrezione veniva festeggiata quindi tre giorni dopo la Pasqua ebraica, senza tenere conto di quale giorno della settimana fosse. Più avanti si decise invece di festeggiarla il giorno dopo lo shabbath, ossia la domenica.

Ma nell’Impero Romano si usava un calendario solare, quello giuliano, e ai romani non andava a genio che la data di una festività così importante fosse sottoposta alle autorità ebraiche. Fu così che al Concilio di Nicea si scelse un metodo per calcolare la data della Pasqua indipendentemente dal calendario ebraico. E pertanto fu stabilito, appunto, che la Pasqua cristiana sarebbe stata la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera.

Una scelta complessa

Si presentavano però alcuni problemi. A iniziare con il fatto che l’equinozio astronomico, il momento in cui ufficialmente inizia la primavera, è variabile. Dipende dall’istante in cui il Sole passa nel punto di intersezione tra l’equatore celeste (il prolungamento dell’equatore terrestre nel cielo) e l’eclittica (il piano su cui orbita la Terra, che è pertanto anche quello del cammino apparente del Sole nel cielo). Siccome i moti terrestri sono tutt’altro che regolari e l’anno non dura esattamente i convenzionali 365 giorni, questo momento può cadere tra il 19 e il 21 marzo, variando ogni anno. Del resto, gli anni bisestili furono introdotti proprio per sopperire alle differenze tra l’anno del calendario e il reale tempo di rivoluzione della Terra attorno al Sole, e furono questi a complicare ulteriormente la faccenda, aggiungendo un’ulteriore variabilità al momento dell’equinozio rispetto al calendario.

Il risultato è che per la scelta della data della Pasqua non si prende in considerazione il reale momento dell’equinozio, ma questo viene convenzionalmente posto al 21 marzo. Inoltre, non è il moto reale della Luna a interessare, ma si parla di “Luna del computo”, di nuovo un intricato insieme di convenzioni.

La Luna del computo

Nel computo, la Luna è nuova 30 ore dopo la congiunzione con il Sole. Tecnicamente la Luna diviene nuova quando è più vicina al Sole nel cielo. 30 ore è il tempo convenzionale affinché la Luna torni visibile a occhio nudo. La Luna piena del computo è 13 giorni dopo la Luna nuova del computo (sopperendo in qualche modo a quelle 30 ore, visto che la Luna piena reale è 14,7 giorni dopo la Luna nuova).

Se proprio il 21 marzo la Luna è piena, ed è sabato, allora la Pasqua sarà il giorno dopo 22 marzo (la Pasqua più “bassa” possibile). Se invece è domenica, il giorno di Pasqua sarà la domenica successiva, ossia il 28 marzo. Questo, probabilmente, fu scelto proprio per evitare di sovrapporre la Pasqua cristiana a quella ebraica (che invece inizia proprio con la Luna piena, quest’anno il 6 aprile). Se la Luna è piena il 20 marzo, allora la successiva sarà 29 giorni dopo, il 18 aprile, e se il 18 aprile è domenica allora la Pasqua sarà la più “alta” possibile, il 25 aprile. Queste date, il 22 marzo e il 25 aprile, sono pertanto i due casi estremi, e la Pasqua sarà sempre compresa tra di esse. Come quest’anno, in cui la Pasqua si festeggia domenica 9 aprile, la prima dopo la Luna piena del computo del 6 aprile, successiva all’equinozio di primavera convenzionale del 21 marzo.

 

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08 Aprile 2023 – Redazione

 

Tra pochi giorni si festeggia la Pasqua: uno dei simboli più riconosciuti di questa festività è il cosiddetto “Uovo di Pasqua”; in questo articolo cercheremo di ripercorrere la sua antica storia.

Le origini dell’uovo di cioccolato sono da ricondurre al re Sole, Luigi XIV. Fu lui che per primo, a inizio Settecento, fece realizzare un uovo di crema di cacao al suo chocolatier di corte. L’usanza di regalare le uova a Pasqua però è più antica e si perde nel lontano Medioevo. La scelta di regalare un proprio uovo non è casuale. Fin dall’antichità questo alimento ha ricoperto un valore simbolico enorme. In alcune culture Terra e Cielo, unendosi, formavano proprio un uovo, simbolo di vita. Per gli antichi Egizi l’uovo era invece l’origine di tutto e il fulcro dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). Siccome in Primavera la natura risorge, i Persiani amavano poi regalarsi proprio delle uova, simbolo di nuova vita.

Il cristianesimo affianca queste tradizioni e le reinterpreta alla luce delle Nuove Scritture: l’uovo diventa così il simbolo che meglio coglie il significato del miracolo della Resurrezione di Cristo.

L’usanza di regalarsi uova si diffonde a partire dal Medioevo, in Germania. Qui tra la gente comune la consuetudine era distribuire uova bollite, avvolte in foglie e fiori in modo che si colorassero naturalmente. Tra i nobili e gli aristocratici invece si diffuse l’abitudine di fabbricarne alcune di argento, platino o oro, decorate.

Se oggi nell’uovo di Pasqua troviamo una sorpresa è meritò di Fabergé, il creatore delle uova Matrioska. Ma non tutti su questo, concordano. C’è chi ricorda come già nel Settecento dalle parti di Torino c’era infatti l’usanza di inserire un piccolo dono dentro le uova di cioccolato.

Secondo quest’altra interpretazione potrebbero essere stati quindi proprio i Piemontesi, maestri nell’arte del cioccolato, i primi a lanciare la moda delle uova pasquali con sorpresa.

In diverse tradizioni pasquali l’uovo continua a mantenere un ruolo durante tutto il periodo delle festività. Durante il periodo di Quaresima, in virtù del digiuno, le uova vengono spesso non consumate ed accumulate per il periodo successivo. Nella tradizione balcanica e greco ortodossa l’uovo, di gallina, cucinato sodo, da secoli viene colorato, tradizionalmente di rosso, simbolo della Passione, ma in seguito anche di diversi colori, in genere durante il giovedì santo, giorno dell’Ultima Cena, e consumato a Pasqua e nei giorni successivi. Il giorno di Pasqua, in molti riti, si compie la benedizione pubblica delle uova, simbolo di resurrezione e della ciclicità della vita, e la successiva distribuzione tra gli astanti.

Prima del consumo, in particolare nella tavolata di Pasqua, ognuno sceglie il proprio uovo e ingaggia una gara (τσούγκρισμα) con i commensali, scontrandone le estremità, fino ad eleggere l’uovo più resistente. Questo viene considerato di buon augurio. Le colorazioni vengono effettuate attualmente con coloranti alimentari tipici della pasticceria, ma in passato si utilizzavano prodotti vegetali, tra cui la buccia esterna delle cipolle di varietà rossa.

Successivamente, prevalentemente nel XX secolo ma con prototipi torinesi risalenti al Settecento[4], è invalsa la moda dell’uovo di cioccolata arricchito al suo interno da un piccolo dono. Se fino a qualche decennio fa la preparazione delle classiche uova di cioccolato era per lo più affidata a maestri artigiani, oggi l’uovo di Pasqua è un prodotto diffuso soprattutto in chiave commerciale. La preparazione delle uova di Pasqua delle più svariate dimensioni trova inizio anche più di un mese prima del giorno della Pasqua, come effettivamente accade anche per l’albero di Natale nel periodo natalizio. La produzione delle uova di cioccolato, in Italia, è affidato per la maggiore alle grandi ditte dolciarie. Attualmente, però, sembrano trovare ampi campi di diffusione le uova a tema, cioè uova di Pasqua incentrate su un cartone animato, un film o una squadra di calcio.

Ciò nulla toglie alle classiche uova di cioccolato preparate artigianalmente che sono tuttora molto diffuse in vari Paesi. In alcuni di essi, come la Francia, è tradizione istituire in aree verdi delle cacce pasquali al tesoro, in cui le uova, preparate artigianalmente e di dimensioni ridotte, vengono nascoste fra gli alberi e vengono poi ritrovate dai bambini. Tale tradizione sta oggi però affievolendosi per via della diffusione globale dell’uovo pasquale prodotto e distribuito commercialmente.

In molti altri paesi, infine, all’uovo di cioccolato viene ancora anteposto l’uovo di gallina solitamente cucinato sodo. Anche nei paesi di religione ortodossa, tuttavia, permane la tradizione delle uova di gallina, in risposta alla diffusione delle uova prodotte commercialmente, giudicate dagli ortodossi una strumentalizzazione consumistica della Pasqua. In Italia l’uovo sodo come simbolo pasquale è rimasto presente soprattutto accompagnato dalla tradizionale colomba pasquale o durante il pranzo. Anche in Arabia l’uovo di Pasqua rappresenta la resurrezione di Gesù.

Fonte: isinnova.it

La stravagante e bellissima storia delle uova Fabergé

Gioielli imperiali, tesoro mondiale, così è nato il mito di questi accessori incredibili.

A partire dal primo uovo gioiello per l’Imperatrice del 1885, in occasione della Pasqua di ogni anno fino al 1917 (a sola esclusione del 1904 e del 1905, anni della guerra tra Russia e Giappone), l’abile orafo realizzò cinquantasette uova di Pasqua in oro, gemme e metalli preziosi, sempre costruite secondo il meccanismo a scatola cinese, e dunque custodi di sorprese legate alla simbologia imperiale.

Questa tradizione continuò fino alla Rivoluzione d’Ottobre, quando le Uova di Fabergé avevano ormai conquistato popolarità in molte parti d’Europa. Un anno prima, nel 1916, Fabergé rese la sua gioielleria una società per azioni, ma con la vittoria dei bolscevichi essa venne nazionalizzata, e così il gioiellerie fu costretto a scappare prima in Germania e poi in Svizzera. Fabergé rimase profondamente colpito dalla rivoluzione russa, alla quale si oppose strenuamente, e morì pochi anni dopo, nel 1920.

La fama e la bellezza delle sue uova rimane però intatta negli anni: basti pensare che un piccolo ovetto Fabergé fu scelto dalla diva Liz Taylor come ciondolo prediletto per una sua collana, che oggi nelle migliori case d’aste ne vengano battuti rari esemplari a prezzi grandiosi, o che una delle creazioni dell’orafo dell’imperatore è stata protagonista del tredicesimo episodio della saga Agente 007,e del film campione d’incassi Ocean’s Twelve.

Fonte: Harper’s Bazaar

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06 Aprile 2023 – Redazione

 

L’eugenetica è una disciplina che si pone come obiettivo il miglioramento della specie umana giovandosi delle leggi dell’ereditarietà genetica. Nell’immaginario collettivo viene associata alla Germania nazista, con gli esperimenti effettuati nei campi di concentramento, mentre, invece, si tratta di un fenomeno con radici precedenti e ben più profonde.

Il termine fu coniato nel 1883 da Francis Galton, cugino di Darwin e naturalista inglese, che si occupò della trasmissione di caratteri psichici e fisici ereditari, sostenendo che l’intelligenza fosse ereditaria. Le sue teorie erano influenzate dalla selezione naturale dimostrata da Darwin e da Thomas Robert Malthus. Quest’ultimo fu un economista e demografo inglese che sosteneva la necessità di controllare le nascite per mezzo della castità, per garantire alla popolazione un adeguato ammontare di risorse, che con un eccessivo aumento demografico sarebbero potute mancare. Nelle sue teorie fa anche riferimento all’esigenza di un salario minimo per nucleo familiare, raggiunto il quale si potesse avere figli e sosteneva che, al contrario, eventuali aiuti statali per i poveri fossero deleteri per la società, in quanto favorivano la procreazione di tali famiglie.

L’eugenetica si è successivamente trasformata, in diverse parti del mondo, in un favorire la riproduzione di soggetti socialmente desiderabili e di prevenire la nascita di quelli indesiderabili.

Ben prima degli esperimenti di Mengele nei campi nazisti della Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti furono condotte delle campagne di sterilizzazione con relative leggi. La prima risale al 1907 in Indiana e poi adottata da altri 29 stati, in alcuni dei quali è rimasta in vigore fino al 1979. Si stima che in questo periodo circa 60000 americani siano stati sterilizzati senza il loro consenso. I destinatari di queste sterilizzazioni erano soprattutto ospiti di manicomi, seguiti da albini, alcolizzati, talassemici, epilettici e immigrati. Divenne famoso il caso di Carrie Buck, internata a 17 anni in un manicomio con l’accusa di debolezza mentale e promiscuità, incinta dopo uno stupro. La donna fece appello contro la sua sterilizzazione, ma la corte suprema si dichiarò favorevole, sostenendo la necessità di impedire a soggetti non sani di procreare. Questo rese le leggi a riguardo, costituzionali, e diede il via alle sterilizzazioni in diversi stati. Il sostegno all’eugenetica era pubblico e ad alti livelli, con finanziamenti, ad esempio, del Carnegie Institution for Science e della fondazione Rockfeller, il sostegno di alcuni presidenti degli Stati Uniti, tra cui Theodore Roosvelt, e l’introduzione di corsi sull’eugenetica in alcune prestigiose università.

Le teorie eugenetiche sulla cosiddetta razza ariana del regime nazista sembrano aver tratto ispirazione dal movimento statunitense, con successiva evoluzione e focalizzazione sull’epurazione, di quelle che venivano ritenute razze inferiori: gli ebrei, i rom, i disabili, gli omosessuali. In principio, però, il programma eugenetico Aktion T4 prevedeva l’eutanasia di persone affette da malattie genetiche inguaribili e handicap mentali, con indubbi punti in comune con il programma statunitense.

Inoltre, in altri paesi europei come la Svezia e la Danimarca sono state introdotte legislazioni simili, in vigore dal 1929 al 1976.

Ancora oggi non conosciamo l’origine di diverse patologie, mentali e non, ma siamo consapevoli che anche i fattori ambientali, e non solo quelli genetici, siano coinvolti. Allo stesso modo, è stato dimostrato, studiando i gemelli omozigoti, che l’intelligenza è un carattere collegato sia a fattori ambientali che genetici. Tralasciando, quindi, l’ovvia condanna in termini etici, di libertà individuale e della crudeltà inflitta in queste pratiche, appare evidente l’insensatezza di queste campagne di sterilizzazione e applicazione dell’eugenetica.

Tuttavia, oggi possiamo considerare un approccio eugenetico, definito “legale”, le diagnosi in gravidanza di malattie genetiche, in cui sappiamo qual è la mutazione cromosomica responsabile, e la diagnosi genetica pre-impianto in cui si può scegliere l’embrione idoneo dopo la fecondazione in vitro. Questa procedura è suggerita in coppie ad alto rischio riproduttivo (in quanto portatori di malattie genetiche) per evitare l’aborto terapeutico successivamente.

I dati attuali rivelano che dall’introduzione della diagnosi pre-natale per la trisomia del cromosoma 21, che causa la sindrome di Down, si è osservata una riduzione del numero di individui affetti da questa patologia. La diagnosi è accompagnata generalmente da possibilità di sostegno psicologico per i genitori e di informazione sull’assistenza che si può ricevere se si porta a termine la gravidanza. Tuttavia, le statistiche attuali riportano che in caso di diagnosi di trisomia la percentuale di interruzioni di gravidanza è pari al 67% negli Stati Uniti, al 77% in Francia, al 90% nel Regno Unito e al 98% in Danimarca.

Nonostante le aberranti pratiche naziste e la pubblica condanna dei crimini contro l’umanità nel processo di Norimberga, le leggi di sterilizzazione forzata sono rimaste in vigore fino alla fine degli anni ‘70. Ciò è avvenuto sia negli Stati Uniti sia in Europa, in paesi che avevano firmato la convenzione dei diritti dell’uomo nel 1950. Questo sottolinea la necessità di avere una strettissima regolamentazione e definizione dei limiti dell’eugenetica, soprattutto in un’era in cui le informazioni genetiche e la possibilità di modificare il genoma umano stanno diventando sempre piu alla portata di tutti.

Fonte: Scientificast (Valeria Cagno)

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03 Aprile 2023 – Redazione

Uno dei Padri della Repubblica, Presidente ancora molto amato dagli italiani

PENSO SEMPRE A QUEST’UOMO CON LA U MAIUSCOLA, AL SUO GRANDE BAGAGLIO DI IDEALI, ALLA SUA DETERMINAZIONE, COMUNE SOLO AI “GIOVINOTTI”, COME LUI AMAVA DEFINIRE I COMBATTENTI PROTAGONISTI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE, QUELLI CHE NON SI ERANO RISPARMIATI PER AFFERMARE LIBERTÀ E DEMOCRAZIA, VALORI CHE IL NOSTRO PAESE NON AVEVA CONOSCIUTO IN TANTI SECOLI DI STORIA.

IN UN PERIODO COSI DISGRAZIATO COME QUELLO CHE STIAMO VIVENDO, MI CAPITA SEMPRE PIÙ SPESSO DI RIPENSARE A QUEL LONTANO LUGLIODEL 1981, QUANDO, IN VISITA UFFICIALE A LIVORNO PER IL CENTENARIO DELL’ACCADEMIA NAVALE, PERTINI ONORO’ DELLA SUA PRESENZA ANCHE NOI, ALLIEVI DEL CONSERVATORIO MUSICALE PIETRO MASCAGNI. IO, APPENA QUINDICENNE, EBBI LA FORTUNA DI PORRE DUE DOMANDE AL PRESIDENTE, DI CUI RICORDO LA TENEREZZA CON CUI MI RISPOSE, NASCOSTA DIETRO DUE OCCHI VIVACI E ATTENTI DI CHI, RIMASTO GIOVANE NELLA MENTE E NELL’ANIMA, NON SENTIVA IL PESO DEGLI ANNI E DELLE LOTTE. UN INCONTRO UNICO, DAL SEGNO INDELEBILE, RIMASTO IMPRESSO IN ALCUNE PREZIOSE FOTOGRAFIE, CHE GUARDO SPESSO E CONSERVO CON AFFETTO E GRATITUDINE.

 

 

PER QUESTO, OGGI, HO PENSATO DI DEDICARE UN INSERTO DEL GIORNALE AD UN UOMO DI STATO CHE GIÀ NEL 1949 AVEVA BEN COMPRESO IN CHE CUL DE SAC L’ITALIA SI SAREBBE INSTRADATA, ENTRANDO A FAR PARTE DELLA NATO.

MARZIA MC CHIOCCHI

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Noi siamo contro il Patto Atlantico, prima di tutto perché questo Patto è uno strumento di guerra”. Sono parole di  Sandro Pertini, nel discorso al Senato del 7 marzo 1949 in cui votò contro l’adesione dell’Italia alla Nato. Da socialista spiegò che quel voto era in realtà ispirato anche ad un’altra ragione. “Questo Patto Atlantico in funzione antisovietica varrà a dividere maggiormente l’Europa, scaverà sempre più profondo il solco che già separa questo nostro tormentato continente“.

Pertini parlò della Nato come di una Santa Alleanza in funzione antisovietica, un’associazione di nazioni, quindi, che avrebbe portato in sé le premesse di una nuova guerra “…e non le premesse di una pace sicura e duratura“.

Noi siamo contro questo Patto Atlantico dato che esso è in funzione antisovietica. Perché non dimentichiamo, infatti, come invece dimenticano i vostri padroni di oltre Oceano, quello che l’UnioneSovietica ha fatto durante l’ultima guerra. Essa è la Nazione che ha pagato il più alto prezzo di sangue. Senza il suo sforzo eroico le Potenze occidentali non sarebbero riuscite da sole a liberare l’Europa dalla dittatura nazifascista”
Sandro Pertini

Quella seduta del marzo 1949, segnò di fatto la sudditanza dell’Italia alla Nato, non solo l’adesione dell’Italia alla Nato. Oggi per la Nato l’Italia è pizza, mandolino e armi. Oltre che la più bella tra le portaerei: stesa sul Mediterraneo e in alcune isole tra le più belle di Mare Nostrum, a guardia di un mondo in ebollizione.

Pertini ci aveva visto giusto. Quello che resta l’unico e inimitabile Presidente degli Italiani, seppe incidere e restare nella mente degli italiani con gesti inediti. Fin dalla sua elezione, in un caldissimo giorno di luglio: al Quirinale ci andò a piedi, cordiale e disponibile con tutti. Per tutti i suoi sette anni continuerà a ricordare la Resistenza, non come un disco rotto fermatosi allo stesso punto, ma come un continuo sprone: capire “come” e “per chi” nacque la Repubblica era a suo avviso fondamentale.

Fu un faro, resta un faro. Fosse qui, sarebbe ancora a predicare perchè l’Italia che auspicava ancora non c’è. Cosa avrebbe detto dei privilegi, di un portavoce che guadagna più di un premier, dei conti salatissimi del ristorante di chi oggi governa l’Italia, degli scandali che ancora ammorbano il nostro paese? Dei giovani che fuggono se hanno coraggio e cervello e di quelli che restano a dibattersi senza lavoro e senza certezze? Degli operai defraudati del lavoro? Possiamo solo immaginarlo.

 

Un piccolo prezioso libro uscito a 20 anni dallo scandalo di Mani Pulite ha ricordato i richiami alla moralità di quello che resta il presidente più amato nella stra degli italiani. Il libro dovrebbe essere letto soprattutto dai giovani, perché Sandro Pertini amava parlare a loro e da loro si attendeva una Nuova Italia.

E’ soprattutto ben congeniato:Pietro Perri lavora sulle lettere private e sui discorsi pubblici (alcuni passati alla storia per la loro fermezza) di Sandro Pertini ed ogni brano è subito contestualizzato ma continuamente intrecciato con l’oggi. L’autore sembra guidarci a dire “cosa” Pertini avrebbe detto dei nominati, di un Parlamento svuotato della sua sovranità, dei corrotti e degli affaristi.

Ne esce un testo fondamentale a capire l’origine di tutti i mali. Pertini già dieci anni prima di Mani Pulite parla della mani sporche. Ci sono tutti i mali di oggi, tutto ciò che non è stato fatto, i valori che si sono persi per strada, primo fra tutti l’onestà e la rettitudine, continuamente nel pensiero di Pertini non come predica, ma come esortazione.

Sandro Pertini le possedeva. L’amara constatazione è che siamo rimasti fermi di almeno 50 anni. Possiamo ripartire? Sì, ma non senza ideali. Sandro Pertini, grazie alla rilettura intelligente e all’ordinatissimo lavoro redazionale di Pietro Perri, ce li offre. E’ lì a ricordarci cosa possiamo essere, attraverso le struggenti lettere alla madre (che chiederà la Grazia mentre lui è in prigione e che lui rifiuterà) e attraverso le parole rivolte al cognato Umberto Voltolina.

Sandro Pertini da Savona, classe 1896, politico, giornalista, antifascista italiano, era così: tutto d’un pezzo. Destinato a diventare il Settimo (e in assoluto il più amato) Presidente della Repubblica dal 1978 al 1985, sale al Quirinale nell’anno in cui hanno da poco assassinato Aldo Moro. Il paese è sotto choc, e anche la sua elezione sembra un dei tanti rituali di una Repubblica a pezzi. Ma in realtà fin dai primi passi gli italiani capiranno di poter trovare in lui conforto. Un conforto che cerchiamo anche adesso, a 32 anni dalla sua morte, in pieno vuoto politico e istituzionale.

Grazie Presidente

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29 Marzo 2023 – Redazione – di Jenn Correa (Tourinvespa.com)

 

29 Marzo 1946, settantasette anni fa, al Circolo Golf Club dell’Acquasanta di Roma, viene presentata la Vespa, quello che poi sarà uno dei più grandi fenomeni dell’industria motoristica italiana nel mondo. Un progetto iniziato anni prima, con il prototipo soprannominato Paperino, disegnato dagli ingegneri Renzo Spolti e Vittorio Casini, ma di cui Enrico Piaggio non era del tutto convinto. Nella sua continua ricerca di una maggiore praticità, Piaggio decide di rivisitare il prototipo, affidandolo al progettista aeronautico Corradino D’Ascanio ed al disegnatore Mario D’este. Così nasce un’idea originale, rivoluzionaria, decisamente differente dal primo prototipo.

Venerdi 29 Marzo 1946, viene presentato il brevetto della Vespa 98, uno scooter del tutto innovativo e funzionale, con uno stile unico, lontano dall’idea comune di motocicletta. Nel 2021 lo “scooter più famoso al mondo” ha  festeggiato il 75° anniversario dalla sua nascita. Senza ombra di dubbio, un successo senza precedenti, che ha raggiunto migliaia di fan in tutto il mondo. Il debutto della Vespa rappresenta un sogno di libertà e voglia di ripartire dopo la fine della seconda guerra mondiale. Un sogno che, negli anni, diventerà un’icona e rappresenterà un vero e proprio stile di vita. Il nome “Vespa” tra l’altro deriva dalla spontanea esclamazione sembra una Vespa!” pronunciata da Enrico Piaggio quando per la prima volta vede la forma centrale larga e la vita stretta del prototipo Mp6, prodotto nello stabilimento della Piaggio a Pontedera (Pisa).

II PRIMI ANNI DELLA VESPA: DALLA NASCITA AGLI ANNI ‘60

La Vespa nasce in un periodo storico importante per l’Italia, il dopoguerra. Anni in cui il Paese vuole risvegliarsi e riprendere a vivere, lasciandosi alle spalle gli orrori del secondo conflitto mondiale. L’Italia cresce e si presentano nuove esigenze. Tra queste: la mobilità di chi non può permettersi  l’acquisto di un’automobile.

Da qui l’idea geniale di un mezzo leggero, comodo, veloce e innovativo, anche nelle nuovissime forme di presentazione e pagamento:

1) mezzo di trasporto non solo per professionisti, ma per tutti.

2) La possibilità di acquisto rateizzato.

Cosi che, la Vespa, nata sotto una buonissima stella, coinvolge tutti, in particolare le donne, dal momento che si tratta di un mezzo di trasporto facile da guidare anche con la gonna. E la pubblicità contribuirà al suo successo, al punto che le campagne pubblicitarie diventeranno iconici capolavori.

Negli anni ’50 avviene un profondo cambiamento nell’uso della Vespa, che passa dall’essere principalmente utilizzata per recarsi al lavoro, a diventare un veicolo di svago e divertimento in un’Italia che rifioriva dopo i disagi degli anni precedenti. “Vespizzatevi!”,  diventa quindi lo slogan con cui in quegli anni, si sottolineano i vantaggi che si possono avere come proprietari di una Vespa.

In quegli anni, inoltre, la Vespa diventa per tutti il sinonimo e il simbolo del design e dell’ingegno italiano nel mondo. Un vero  fenomeno mediatico, che diventa anche soggetto di diverse sceneggiature cinematografiche come per esempio nel film, diventato poi un “cult”, “Vacanze romane” del 1953.

La Vespa diventa protagonista nei film, ma anche nella letteratura e naturalmente in campo pubblicitario. E’ la fedele compagna di viaggio della storia dell’Italia. Il successo è ormai internazionale.

Il boom degli anni ’80: la Vespa alla conquista del mondo.

Negli anni ’80 il mito della Vespa ha ormai varcato i confini nazionali tanto che la Piaggio spinge forte sull’acceleratore (è proprio il caso di dirlo) con la diffusione della Vespa, creando una grande rete di servizi in tutta Europa e nel resto del mondo. In questi stessi anni il mitico mezzo di trasporto a due ruote riceve riconoscimenti a livello mondiale, consolidando la sua immagine su tutti i mercati esteri.

Per queste ragioni, la Piaggio decide ancora una volta di puntare molto sulla pubblicità, coinvolgendo nel suo messaggio i giovani che,  in sella alla propria Vespa, possono realizzare qualsiasi sogno. Obiettivo raggiunto: la Vespa diventa sempre più lo scooter dei giovani per spostarsi in città, in campagna, ovunque.

La scalata verso l’Olimpo degli indimenticabili prosegue e la Vespa comincia a contare i vari tentativi di imitazione, che rimangono tali in quanto il due ruote tutto italiano non si può imitare!

GLI ANNI 2000: NASCE LA VESPA ELETTRICA


Nel nuovo millennio la Vespa si evolve. 
Nascono nuovi modelli che conquistano definitivamente i mercati stranieri. Diventa uno scooter “monomarcia”, una scelta che divide gli appassionati. Chi la vede come una sorta di sacrilegio nei confronti di un mito, chi invece ne comprende le scelte e vede in questi modelli la naturale evoluzione di quella Vespa presentata a Roma il 29 marzo del 1946.

Intanto la nuova Vespa elettrica, l’ultima arrivata in casa Piaggio, vince diversi premi tra cui il Compasso d’Oro ADI (Associazione per il Disegno Industriale) che, nel consegnare questo premio, sottolinea i valori, l’attenzione ed il rispetto per l’ambiente dimostrato da  Piaggio nella realizzazione di questo nuovo modello. La verità è che la Vespa continua ad affascinare, mantenendo inalterato quell’inconfondibile design che da sempre la contraddistingue.

LA VESPA E IL CINEMA: UN LEGAME INDISSOLUBILE

Audrey Hepburn e Gregory Peck in “Vacanze Romane” (1953) infatti sono solo i primi di una lunga serie di attrici e attori internazionali che negli anni sono stati ripresi sullo scooter più famoso del mondo, in film che vanno da “Quadrophenia” ad “American Graffiti”, da “Il talento di Mr. Ripley” fino a “La carica dei 102”, per non parlare di “Caro Diario” o dei recenti “Alfie” con Jude Law, “The Interpreter” con Nicole Kidman e il blockbuster “Transformers, The last Knight” del 2016 ”. Nelle foto, nei film e sui set, Vespa è stata “compagna di viaggio” di nomi quali Raquel Welch, Ursula Andress, Geraldine Chaplin, Joan Collins, Jayne Mansfield, Virna Lisi, Milla Jovovich, Marcello Mastroianni, Charlton Heston, John Wayne, Henry Fonda, Gary Cooper, Anthony Perkins, Jean-Paul Belmondo, Nanni Moretti, Sting, Antonio Banderas, Matt Damon, Gérard Depardieu, Jude Law, Eddie Murphy, Owen Wilson e Nicole Kidman.

In settantasette anni di storia (Piaggio ne depositò il brevetto il 23 Aprile 1946) e con 19 milioni di esemplari diffusi sulle strade dei cinque continenti, Vespa ha dato una nuova marcia al mondo intero diffondendosi sulle strade di tutte le nazioni, unendo in un’unica passione giovani di culture lontane e diverse. Una vera leggenda del Grande Made in Italy!

Il rapporto tra la Vespa e il cinema è un matrimonio straordinario: incredibilmente felice e intenso, indissolubile nei decenni, capace di rinnovarsi continuamente e di creare emozioni ad ogni latitudine…La Vespa è oggi il simbolo della creatività italiana nel mondo e un esempio unico di ‘immortalità’ nella storia del design industriale. Vespa non appartiene più soltanto al mondo della mobilità: è la storia di un fenomeno-simbolo del costume globale. Oggi come ieri, andare in Vespa è sinonimo di libertà e status sociale, di dinamismo e di passione per la bellezza. E’ un’esperienza di vita e di immaginazione, carica di simboli individuali e collettivi nati in gran parte negli anni della Dolce Vita: Audrey Hepburn e Gregory Peck in Vacanze Romane sono stati i primi protagonisti di un connubio magico, che si è poi ripetuto con straordinaria frequenza in centinaia di pellicole cinematografiche e di campagne di advertising. La creatività di attori e attrici, di registi e di pubblicitari alimenta la forza del mito e arricchisce quotidianamente l’immaginario di Vespa di nuovi valori, in ogni angolo del mondo”.

Vespa non è solo un fenomeno industriale e commerciale che dura da 70 anni. Sin dalla sua apparizione, nel 1946, ha influenzato la storia del costume e della cultura. Negli anni della “Dolce Vita” Vespa diventa sinonimo di scooter e i reportage dei corrispondenti stranieri descrivevano l’Italia come “il Paese delle Vespa”. Il ruolo giocato dall’iconico scooter nel costume non solo italiano è documentato dalla presenza di Vespa in centinaia di film internazionali. Ed è una storia che continua anche oggi.

E ancora, Vespa compare in celebri pellicole firmate dai maestri italiani del cinema, come Dino Risi, Federico Fellini, Mario Monicelli, da “Caro Diario” di Nanni Moretti a “Romanzo Criminale” di Michele Placido e a “Nuovo Cinema Paradiso” (premiato con Oscar e Golden Globe) di Giuseppe Tornatore.


MUSEO PIAGGIO

E per non dimenticare la storia di una delle industrie più importanti del nostro Paese e di uno dei tanti prodotti dell’eccellenza italiana, a Pontedera il 29 marzo del 2000 e’ stato inaugurato il Museo Piaggio, ubicato nell’ex attrezzerie del complesso industriale, su progetto di Andrea Bruno, che ha recuperato l’attrezzeria, la zona più antica della fabbrica costruita negli anni venti. Nel 2018 è stato completamente ristrutturato.

A volere fortemente il museo fu Giovanni Alberto Agnelli (meglio conosciuto come Giovannino Agnelli),  allora presidente della Piaggio, che però morì tre anni prima dell’inaugurazione e a cui fu quindi dedicato. Il Museo è nato per conservare e valorizzare il patrimonio storico di una delle più antiche imprese italiane e si pone l’obiettivo di ricostruire le vicende di Piaggio e del suo Territorio ripercorrendo un lungo tratto di storia italiana, fatto di trasformazioni economiche, di costume e di sviluppo industriale, attraverso l’esposizione dei suoi prodotti più famosi e rappresentativi e grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio Storico.
Accanto allo spazio dedicato alle collezioni esposte permanentemente, il Museo Piaggio dedica 340 m² a esposizioni temporanee che permettono alla struttura di variare continuamente l’offerta culturale spaziando dal campo dell’arte a quello della tecnologia, dalla divulgazione scientifica alla moda. Negli anni questi spazi hanno ospitato mostre, eventi e opere di artisti straordinari quali Dalì, Picasso e, tra gli italiani, Burri, Nomellini, Viani, Pellizza da Volpedo, Fattori, Modigliani, Carrà, Signorini, Soffici, Spreafico, Nespolo e altri protagonisti dell’arte moderna e contemporanea.Nel 2003 il Museo Piaggio e l’Archivio Storico sono stati premiati come Miglior Museo e miglior Archivio d’Impresa in Italia, nell’edizione del Premio Impresa e Cultura 2003.

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28 Marzo 2023 – Redazione

 

Le birre artigianali sono sempre più apprezzate dai consumatori e, in Sardegna, si contano già 44 birrifici artigianali (oltre 1000 nello Stivale). Manca solo una filiera che rafforzi il prodotto e lo valorizzi, anche perché non mancano le eccellenze. È questa la proposta di Coldiretti Sardegna, avanzata durante il convegno tenutosi a Nuoro sabato 25 marzo proprio su questo settore in ascesa.

All’incontro era presente anche Teo Musso, presidente del Consorzio birra italiano e titolare del birrificio Baladin, la realtà più famosa nel panorama italiano e che produce il 98 per cento delle materie prime della sua birra nella propria azienda agricola. “In 25 anni i birrifici artigianali hanno determinato una rivoluzione culturale nel mondo brassicolo italiano – ha dichiarato Musso -. Il lavoro che stiamo portando avanti dal 1996 ha cambiato la percezione della birra che non è più un mono-prodotto ma ha tante sfumature aromatiche legate al territorio italiano grazie agli oltre mille birrifici artigianali e alle oltre 15mila etichette”.

Coldiretti Sardegna crede nel settore e stiamo lavorando con il Consorzio per unire i birrifici artigianali che sposano la filiera agricola e ascoltare le loro esigenze – ha evidenziato il direttore di Coldiretti Sardegna, Luca Saba -. Stiamo costruendo un percorso di filiera sarda facendo incontrare tutti i protagonisti, da chi coltiva a chi trasforma, e lavoreremo per allargare la produzione di orzo sardo con contratti di filiera. Allo stesso tempo stiamo creando momenti pubblici di festa in cui si faccia squadra tra imprese e si valorizzi la birra artigianale in Sardegna e non solo”.

Le grandi opportunità che offre il Consorzio della birra sono emerse anche a Nuoro come una piattaforma di distribuzione, che si sta già costituendo, che garantirebbe ai birrifici artigianali di tagliare i costi nell’acquisto delle materie prime, oltre a garantire il valore aggiunto di una birra 100 per cento italiana e magari anche sarda come testimonia l’esempio di Marduk, birrificio agricolo di Irgoli che produce oltre il 90 per cento delle materie prime nella propria azienda agricola.

“Adesso si parla di filiera, di un prodotto legato alla terra che stiamo rafforzando e valorizzando con il Consorzio della birra italiana nato nel 2019 grazie alla Coldiretti – ha detto il direttore del Consorzio, Carlo Schizzerotto – che intende divenire il punto di riferimento per il settore riunendo tutti i birrifici che sposano la filiera italiana. Abbiamo la capacità di fare sistema oltre che formazione e offrire nuove opportunità”.

Al convegno è intervenuto anche Luca Pretti, ricercatore di Porto Conte ricerche, il più grande esperto di birre artigianali in Sardegna, e non solo, che sta contribuendo concretamente a far crescere il settore nel territorio regionale.

“È un settore giovane con protagonisti i giovani che stanno dimostrando grande passione – ha detto Battista Cualbu, presidente Coldiretti Sardegna -. Un settore in ascesa con il quale cercheremo insieme di fare un ulteriore percorso di crescita. Dalla discussione sono emerse diverse opportunità che lavoreremo per mettere in atto coinvolgendo tutti gli stakeholder”.


OPPORTUNITÀ’, CHE DOVREBBERO COGLIERE AL VOLO TUTTE QUELLE REGIONI ITALIANE CHE POSSONO SVILUPPARE QUESTA SPECIFICA VOCAZIONE ARTIGIANALE. ANCHE ALLA LUCE DELL’ACQUISIZIONE DEL COLOSSO INDUSTRIALE DELLA BIRRA (HEINEKEN) DA PARTE DI BILL GATES. MULTINAZIONALE CHE INGLOBA PRODOTTI ITALIANI, TRA CUI ICHNUSA E MORETTI.

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