23 Marzo 2023 – Redazione – Marzia MC Chiocchi

 

In vista del Consiglio europeo, calendarizzato il 23 e il 24 marzo, martedi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riferito le priorità italiane al Senato e ieri lo ha fatto alla Camera.

Il prossimo vertice a Bruxelles, per la premier, è il momento in cui, in teoria, andrebbe fatto un salto di qualità sui temi dell’immigrazione e del Patto di stabilità. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in una lettera indirizzata ai 27 Paesi membri, ma soprattutto all’Italia, ha annunciato «un nuovo sostegno pari a 200 milioni di euro che sarà focalizzato sull’assistenza all’accoglienza» e l’«accelerazione dell’attuazione del meccanismo volontario di solidarietà per i ricollocamenti dei migranti». E l’Italia prende un altro schiaffo, non volendo agire con il pugno di ferro sul blocco delle partenze dal Nordafrica. È inutile ricevere aiuti! Servono solo a creare associazioni e realtà che speculano sugli immigrati, e sacche di nuovi abbandonati a se stessi, pronti a creare problemi! MA ORMAI ABBIAMO CAPITO CHE L’UE VUOLE QUESTO, E L’ITALIA NE È COMPLICE! Ma dov’è il blocco navale di cui parlava Giorgia Meloni non in veste di Premier, ma da segretario di partito?


ANALIZZIAMO DA DOVE TUTTO È PARTITO ⤵️

Cos’è e quando è stato firmato il trattato di Dublino?

«È il regolamento dell’Unione Europea che stabilisce criteri e meccanismi per l’esame, e l’eventuale approvazione, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo. Nasce dalle ceneri della Convenzione firmata nella capitale irlandese il 15 giugno 1990, ovvero dal primo trattato internazionale multilaterale firmato dagli allora dodici membri della Comunità europea per darsi regole comuni sull’asilo. In vigore nel 1997, è stato sostituito nel 2003 dal regolamento «Dublino II» che l’ha portato nell’ambito delle competenze dell’Ue. Una terza revisione – «Dublino III» – è stata varata nel giugno 2013».

Cosa stabilisce per quanto riguarda i richiedenti asilo?

«Il principio chiave è dettato dall’articolo 13. «Quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». In altre parole, la responsabilità dell’asilo è del Paese di primo sbarco. Ovvero: chi arriva in Italia tocca all’Italia, chi in Spagna alla Spagna e via…»

Quali le situazioni che hanno portato alla sigla del trattato?

«Nel preparare i trattati istitutivi della Cee, poi firmati a Roma nel 1957, gli Stati fondatori hanno deciso di tenere per sé una serie di politiche anche rilevanti, fra cui l’Immigrazione. Non una cosa da poco, se si pensa che solo nei primi quindici anni del secondo dopoguerra il Belgio accolse circa 200 mila italiani. Quando si arriva alla vigila del mercato unico, si pone l’esigenza di regolare l’asilo. Si tratta di evitare il turismo delle richieste, dunque stabilire che ogni straniero possa chiedere il permesso in un solo Paese. In caso di rifiuto, deve avere una seconda opportunità. È allora che si stabilisce il principio del primo approdo».

Fu una decisione difficile? E quali Paesi spinsero di più per arrivare all’intesa?

«Fu una decisione necessaria. Venticinque anni fa furono soprattutto i tedeschi, freschi di riunificazione ed esposti agli effetti della caduta della Cortina di Ferro, a spingere per regole precise. Oltretutto, dal gennaio 1993, nella Comunità europea s’iniziava la libera circolazione dei cittadini. La repubblica federale era già meta richiestissima, anche se la domanda allora era tutta dall’Est. Per l’Italia, la Convenzione fu un campanello d’allarme. La migrazione era prevalentemente albanese e controllabile. Per il resto si lasciava spesso correre, prassi alla quale «Dublino» costrinse a mettere in parte fine.

Cos’è cambiato in questi anni da mettere in discussione il trattato?

«Il contesto mediterraneo, africano e mediorientale. In anni recenti la guerra in Siria, le dittature in Eritrea e nella parte centrale del continente nero, l’instabilità afghana e pachistana, le primavere arabe tradite, hanno gonfiato il flusso dei migranti che, sino a giorni non lontani, erano in prevalenze gente a caccia di un lavoro. La caduta del regime di Gheddafi ha aperto la porta libica. I popoli in fuga hanno cominciato ad arrivare in Italia e Grecia. Più recentemente, soprattutto per l’offensiva dell’Isis in Siria, si è affollata la via balcanica. Il dato è che milioni di persone fanno la fila per cercare la pace nell’Unione».

Cos’è che non funziona? Perché è considerato uno strumento superato?

«Anzitutto viene contestato l’obbligo del Paese di primo approdo di gestire tutti gli accessi e accogliere chi arriva, sia l’Italia, la Grecia o l’Ungheria, alfieri europei più esposti agli sbarchi e desiderosi di maggiore solidarietà. In seconda battuta, lo stesso precetto impedisce di diritto la possibilità di arrivare a un meccanismo di emergenza che conduca alla redistribuzione obbligatoria di parte dei rifugiati nei momenti di maggiore crisi, ipotesi suggerita da Francia e Germania. Berlino continua a ripetere che «Dublino» è in vigore e la ripartizione obbligatoria verrebbe a valle della sua applicazione. L’Italia ne chiede la revisione: un trattato vecchio, si fa notare, per un mondo cambiato».

Ma chi ha firmato nel 2013 il nuovo Trattato di Dublino, denominato III, alla scadenza naturale dei 10 anni dal precedente?

Pochi documenti hanno influenzato le sorti attuali dell’Italia di quanto non abbia fatto il trattato di Dublino, di cui però l’italiano medio ha sentito parlare solo molto tardi, quando ormai la ratifica era lontana nel tempo e le responsabilità fumose e difficili da assegnare. Quello che si sa di sicuro è che attualmente è in vigore il Dublino III, firmato dal governo di Enrico Letta (ministro degli interni Angelino Alfano, ministro degli esteri Emma Bonino), che ribadisce il principio di responsabilità permanente del paese di primo approdo dei migranti, definendolo «una pietra miliare». Di suo, vi aggiunge il criterio della tutela dei minori e del ricongiungimento familiare per stabilire la competenza dei paesi a concedere il diritto d’asilo (competenza ad accogliere persone con le carte in regola, già identificate e vagliate dai paesi di primo approdo).

Ma il difficile è risalire alla responsabilità iniziale per la «pietra miliare» che rende il paese di primo approdo la discarica dell’Unione europea (adesso praticamente solo l’Italia, da quando la Grecia può spedire gli irregolari in Turchia, pagata miliardi dall’Ue per tenerseli. La Spagna comincia ad avere dei flussi in più da quando Minniti ha fatto l’accordo con i libici: circa 8 mila quest’anno, il doppio dei loro arrivi nel 2016, ma sempre un’inezia rispetto agli sbarchi in Italia).

Il trattato di Dublino III è stato siglato nel 2013 perché quello precedente aveva una scadenza: dieci anni.

Il Dublino II era stato infatti firmato nel 2003 dal governo Berlusconi (ministro degli interni Giuseppe Pisanu, ministro degli esteri Gianfranco Fini), e si basava a sua volta sul precedente documento, che si chiamava non Trattato ma Convenzione di Dublino. A questo il trattato firmato dal governo di centrodestra aveva aggiunto l’obbligo di prendere le impronte digitali. Adesso sembra un’ovvietà ma allora erano forti le polemiche dei garantisti per i quali è una discriminazione prendere le impronte ai soli extracomunitari. Esse però sono servite a creare per la prima volta una banca dati ottenendo così l’emersione di identità e pratiche multiple.

Ma il principio che lega per sempre il migrante al paese di primo approdo non nasce neppure nel 2003, risale al 1° settembre 1997, quando andò in vigore l’originaria Convenzione di Dublino. Quell’anno in Italia era giunta un’ondata di migranti albanesi (scatenata dallo scandalo finanziario delle «piramidi») che per la prima volta non fu respinta dal governo dell’epoca, il Romano Prodi I (ministro degli interni Giorgio Napolitano, ministro degli esteri Lamberto Dini), ma lasciata sostanzialmente sulle spalle delle Caritas e delle parrocchie, prevalentemente pugliesi.

Dunque la Convenzione che andò in vigore nel 1997 era stata originariamente firmata nel lontano 1990, quando era al potere l’ultimo governo di Giulio Andreotti, l’Andreotti VI (ministro degli esteri Gianni De Michelis, Psi, ministro dell’interno Vincenzo Scotti, Dc). Come fa notare Claudio Borghi Aquilani sul suo account Twitter, all’epoca non solo non c’erano barconi di migliaia di uomini lanciati quotidianamente verso le coste dell’Italia, ma non esisteva neppure il concetto dell’entrata libera in un paese senza passare dall’ufficio passaporti e dal visto del paese ricevente.

Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi diceva cosa fare nei confronti degli irregolari: «Art.6. Se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro». All’epoca era una norma di semplice buon senso, c’erano ancora le frontiere anche all’interno dell’Europa, figuriamoci se si poteva entrare tranquillamente dall’esterno, tant’è vero che proprio quel governo lì fece fronte l’anno dopo al primo monumentale sbarco degli albanesi in Puglia. Era l’agosto 1991 e il Viminale dispose un ponte aereo che in una sola notte riportò in Albania 17.467 persone arrivate in Puglia sei giorni prima, con l’impiego di 3 mila uomini e l’intera 46esima aerobrigata, in tandem con l’Alitalia.

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