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‘Salute e Benessere’ Category

25 Marzo 2023 – Redazione

 

Lo sciroppo d’acero è un liquido dolce, vischioso e appiccicoso, ottenuto incidendo il tronco degli aceri (alberi del Genere Acerum). La linfa dolce che fuoriesce da queste incisioni contiene dal 2 al 5% di saccarosio; dopo la raccolta, viene quindi bollita lungamente per far evaporare gran parte dell’acqua concentrando lo sciroppo.

Da un albero di media grandezza si possono ottenere circa 3 kg di zucchero. Gli alberi prevalentemente utilizzati per l’estrazione dello sciroppo (acero da zucchero – A. saccharum – acero rosso – A. rubrum – acero nero – A. nigrum) crescono abbondantemente in alcune regioni situate a cavallo tra Canada e Stati Uniti; non a caso, lo sciroppo d’acero, reperibile nei supermercati più forniti o in erboristeria, è una specialità tipicamente canadese.
Nota: altre specie di acero utilizzate per la produzione di sciroppo sono: acero Manitoba (A. negundo), acero d’argento (A. saccharinum – da non confondere con il saccharum) e acero dell’Oregon (A. macrophyllum).Sciroppi simili si possono ricavare anche da betulle o palme.

Sostituto naturale dello zucchero

Lo sciroppo d’acero rappresenta una delle tante alternative naturali allo zucchero raffinato. Rispetto a quest’ultimo, vanta un potere caloriconettamente inferiore; un cucchiaino da 10 grammi apporta infatti 26 kcal, contro le 39 di un’analoga quantità di saccarosio.
Il potere energetico dello sciroppo d’acero non è quindi trascurabile, ma risparmiare qualche caloria senza ricorrere ai dolcificanti artificiali (i cui effetti cumulativi a lungo termine sono, per certi versi, ancora da chiarire), è già una buona cosa, ovviamente, a patto che non si raddoppino le dosi.
Particolarmente apprezzato da chi segue un’alimentazione naturista, lo sciroppo d’acero (il famoso “maple syrup“) è tradizionalmente impiegato nella preparazione di bevande o per insaporire torte, ciambelle, dessert e piatti vari, come i famosi pancake, gli waffles, il porridge, toast, fiocchi d’avena ecc.
Molti esperti di cucina ne elogiano il sapore definendolo “unico”, anche se la chimica responsabile di queste caratteristiche non è ancora del tutto compresa.

Cenni storici e commerciali

I primi a utilizzare lo sciroppo d’acero furono i nativi americani del continente settentrionale. Successivamente, i coloni europei si appropriarono del sistema, affinando il metodo di produzione grazie a diversi accorgimenti tecnologici.
La provincia canadese di Quebec è la zona di maggior produzione di sciroppo d’acero, dove si raccoglie fino al 70% della quota mondiale.

Nel 2016 l’esportazione canadese è stata di circa 360 milioni di dollari americani (90% dal Quebec). In America, lo stato che produce più sciroppo d’acero è il Vermont (genera circa il 6% dell’offerta globale).

Quanti tipi di sciroppo d’acero esistono?

Secondo la legislazione canadese, per qualificarsi come tale, lo sciroppo d’acero dev’essere prodotto esclusivamente dall’A. saccharum e deve contenere almeno il 66% di zucchero (saccarosio).
Grazie all’organizzazione “International Maple Syrup Institute” (IMSI), in accordo tra Canada, Stati Uniti e Vermont, lo sciroppo d’acero viene differenziato in base alla densità e alla traslucenza.
Le più recenti norme sulla classificazione dello sciroppo d’acero prevedono:

  • Grado A
    • Colore dorato e sapore delicato
    • Colore ambrato e sapore ricco
    • Colore scuro e sapore robusto
    • Colore molto scuro e sapore forte
  • Grado di “elaborazione”
  • Scadente.

Come avviene la produzione di sciroppo d’acero?

L’estrazione dello sciroppo d’acero non avviene tutto l’anno. E’ invece necessario rispettare il ciclo biologico dell’albero e attendere il momento in cui produce lo xilema dolce.
In preparazione alla stagione fredda, l’acero produce e accumula amidoall’interno delle radici e del tronco. Dalla fine dell’inverno e fino in primavera (stagione di raccolta), l’acero converte l’amido in zucchero e, grazie allo xilema, lo trasporta a tutti i distretti della pianta. Alcuni produttori estraggono una piccola quantità di sciroppo anche in autunno.
Gli aceri vengono utilizzati per l’estrazione dello sciroppo a un’età di 30-40 anni e fino a 100. Ogni pianta può supportare da 1 a 3 rubinetti (a seconda del tronco), che vengono impiantati nella corteccia per far defluire lo sciroppo.

Un albero medio produce fino a 12 litri di linfa dolce al giorno (7% della linfa totale in esso contenuta), quindi da 35 a 50 litri per stagione (che dura circa 4-8 settimane).

Lo sciroppo viene estratto di giorno poiché l’abbassamento delle temperature inibisce il flusso del liquido vischioso.

Caratteristiche nutrizionali dello sciroppo d’acero

Oltre a vantare un potere calorico nettamente inferiore rispetto a quello dello zucchero, lo sciroppo d’acero è anche una buona fonte di minerali. Questa è la ragione principale per cui in molti lo preferiscono ad altri sciroppi o allo zucchero semplice.
Lo sciroppo d’acero è costituito principalmente da saccarosio e acqua; sono presenti piccole quantità di glucosio e fruttosio residue dall’idrolisi del saccarosio durante il processo di ebollizione.
Lo sciroppo d’acero fornisce circa 260 kcal per 100 g; contiene il 32% d’acqua e il 67% di carboidrati (90% disaccaridi e monosaccaridi). Proteine, grassi e fibresono assenti o irrilevanti; è presente una certa quantità di amminoacidi liberi.
Per quel che concerne i minerali, lo sciroppo d’acero è considerato una buona fonte di manganese, ma si evincono anche quantità soddisfacenti di zinco, calcio e ferro. In merito alle vitamine, si apprezza un discreto livello di riboflavina (vitamina B2).
Lo sciroppo d’acero contiene un’ampia varietà di composti organici volatili, tra cui la vanillina, l’idrossibutanone e il propionaldeide. Assieme al furanone d’acero, al furanone di fragole e al maltolo, questi composti contribuiscono alla struttura organolettica e gustativa tipica dello sciroppo d’acero. In tutto, i sapori identificati nell’alimento appartengono a 13 famiglie: vaniglia, empireumatico (bruciato), latteo, fruttato, floreale, speziato, deteriorato, acero, confetto, piante-hummuscereali, erbaceo e ligneo.
Recentemente sono stati identificati anche nuovi composti come il quebecolo, un elemento fenolico naturale originato dalla bollitura dello sciroppo d’acero.

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24 Marzo 2023 – Redazione

 

Nonostante il grande consumo di alimenti surgelati rimane ancora il dubbio se le proprietà nutritive, dopo la surgelazione, si deteriorino o rimangano per quantità e qualità come nel prodotto fresco. Il dubbio è legittimo e probabilmente nasce dall’idea che si ha della surgelazione associata alla lavorazione industriale che, nel caso degli alimenti, è spesso collegata a manipolazione e poca genuinità.
Se per nutrienti intendiamo macronutrienti quali carboidrati , proteine e grassi , e micronutrienti quali vitamine e minerali , la loro surgelazione non modifica sostanzialmente la qualità e l’efficacia nutritiva. Consumare surgelati garantisce la conservazione e l’integrità di molti nutrienti, ma non sempre il prodotto mantiene il sapore, le caratteristiche dell’alimento originale e le proprietà nutritive non sempre sono simili al prodotto fresco, dipende dall’alimento, anche perché ogni tipo di“trasformazione” , compresa la cottura casalinga, produce un cambiamento .

Si definisce surgelato un alimento che viene portato ad una temperatura minima di -18° in tempi molto rapidi , da non confondere con la congelazione che raggiunge temperature di
-15° in tempi più lunghi . L’abbassamento rapido della temperatura è uno degli elementi che fa della surgelazione il miglior sistema di conservazione in uso oggi. L’acqua presente in ogni tipo di alimento forma cristalli di ghiaccio minuscoli che non causano lesioni rilevanti alle cellule e quindi non modificano la struttura chimica dei nutrienti nella maggioranza dei casi. Se le cellule sono state danneggiate durante lo scongelamento si ha una fuoriuscita di liquido tipico dei prodotti congelati, se quest’effetto si nota anche nei surgelati è possibile che la surgelazione non sia stata effettuata correttamente o l’alimento abbia subito danni di conservazione nella catena del freddo. Con la surgelazione si blocca la produzione di batteri e di enzimi che a temperature normali provocherebbe la decomposizione dell’alimento dovuta al fatto che queste sostanze si moltiplicano in presenza di acqua e ossigeno, per questo in passato e ancora oggi, un altro ottimo sistema di conservazione per taluni alimenti è l’essicazione. Al momento dell’acquisto le confezioni dei surgelati devono essere integre e si deve controllare la data di scadenza, si possono conservare in casa solo se si ha un congelatore che arrivi a -18° oppure dovrà essere conservato per un tempo consentito dalla temperatura dell’apparecchio. Gli alimenti surgelati hanno un valore nutritivo simile a quelli originali e possono essere inseriti nellacorretta alimentazione quotidiana.

Dal momento della raccolta la verdura inizia a subire processi di ossidazione che possono modificarne il potere nutritivo, questo accade anche se viene conservata in frigorifero. La verdura conservata nel magazzino di raccolta o nel supermercato, ma anche nel frigorifero di casa, subisce delle modificazioni; secondo l’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) una buona surgelazione avviene quando il prodotto si surgela da fresco appena raccolto perché la conservazione in frigo di soli 3 giorni provoca la diminuzione di alcuni micronutrienti come la vitamina C: i carciofi ne perdono il 30% , i broccoli l’80% così come gli asparagi, gli spinaci ne perdono il 75% in soli 2 giorni .
Quindi una buona e corretta surgelazione dovrebbe avvenire subito dopo la raccolta senza che il prodotto sia conservato anche per poco tempo. Nella regolamentazione attuale delle etichette non è obbligatorio definire il tempo che passa dalla raccolta alla surgelazione, quindi il consumatore non può determinare quanti nutrienti siano ancora rimasti integri. In alcuni casi la verdura è lavorata e surgelata vicino al luogo della raccolta e/o conservata per pochissimo tempo prima della surgelazione, nonostante ciò non tutte le verdure mantengono anche il “sapore” di quando erano fresche , gli spinaci o quelle in foglia mantengono il sapore più delle altre così come quelle tagliate a cubetti che si usano per fare i minestroni. In ogni caso vista l’importanza della verdura nell’alimentazione è bene che sia mangiata surgelata piuttosto che non mangiarne 2 porzioni al giorno come si dovrebbe, perché sicuramente l’apporto di fibra e di alcuni antiossidanti resta importante.

Date le loro piccole dimensioni il freddo arriva al centro dei legumi molto rapidamente così da farne un ottimo alimento una volta scongelato. Il sapore però non è paragonabile al prodotto fresco, anche se è certamente più vicino all’originale di quelli in scatola che contengono sale per la conservazione. Il legume surgelato ha il vantaggio di essere più pratico anche di quello secco che pur si mantiene in ottime condizioni se non viene conservato in ambienti umidi, ma richiede parecchie ore per rinvenire. Anche per ilegumi il valore nutrizionale dei surgelati dipende dal tempo trascorso tra la raccolta e la surgelazione che mantiene inalterate le proteine e i minerali, mentre permangono solo le vitamine presenti nell’alimento al momento della surgelazione .

Solo alcuni tipi di frutta che hanno piccole dimensioni  mantengono le loro caratteristiche una volta scongelati, in particolare i frutti di bosco e le fragole. Altri tipi di frutta perdono consistenza: pere, mele, uva, cocomero, mentre pesche e banane si ossidano e scuriscono. Anche per la frutta il valore nutrizionale di quella surgelata dipende dal tempo trascorso tra la raccolta e la surgelazione così, mentre lo zucchero (fruttosio) e i minerali rimangono inalterati, le vitamine saranno solo quelle presenti nell’alimento al momento della surgelazione. I frutti piccoli possono perdere liquido durante lo scongelamento, anche se sono stati surgelati bene, perdendo così zucchero, vitamine e minerali, meglio quindi consumare i frutti con il proprio liquido e rapidamente dopo lo scongelamento perché alcune vitamine si possono ossidare e quindi andare perdute.

PESCE

Con la surgelazione i nutrienti del pesce si mantengono per lunghi periodi, variabili a seconda della specie e della taglia, i pesci piatticome la sogliola e i tranci o il pescato lavorato pronto da cucinare si conservano più a lungo. I nutrienti importanti del pesce quali: proteine essenziali ad alto valore biologico, grassi polinsaturi come gli omega 3 , minerali e alcune vitamine liposolubili come la A e la D restano sostanzialmente inalterati. I pesci grassi come il salmone o lo sgombro hanno una data di scadenza inferiore alle altre specie a causa dell’alto contenuto di acidi grassi polinsaturi perché se conservati oltre 4/6 mesi possono irrancidire.
Il merluzzo è un pesce con ottime caratteristiche nutritive, compreso gli omega 3 e le vitamine A e D, è molto adatto ad essere surgelato, intero in taglia piccola, a filetti o lavorato pronto per essere cucinato, mantiene pressoché inalterati i suoi nutrienti. Anche icrostacei, cefalopodi e molluschi si prestano bene ad essere surgelati perché oltre ad essere molto pratici, mantengono pressoché inalterati i loro nutrienti. Per i precotti il mantenimento delle proprietà nutritive dipende dalla cottura, mediamente le proteine e i grassi rimangono invariati.

CARNE

La carne surgelata non è molto diffusa, l’alimento ha solitamente una filiera corta e viene conservato bene anche sottovuoto nellacatena del freddo intorno ai 5° . Anche per la carne si conservano meglio i tagli piccoli a spessore basso, in quanto il freddo raggiunge rapidamente il centro dell’alimento bloccando il deperimento di tutti i nutrienti comprese le proteine ad alto valore biologico. Quando si acquista la carne surgelata è bene sceglierequella magra e con meno grasso visibile (anche per la carne il grasso è il nutriente che si conserva meno a lungo) ben separata: fettine, spezzatino, tranci o quarti di pollo sono anche più pratici perché si scongelano rapidamente rispetto a tagli grossi o animali interi come un tacchino. I nutrienti essenziali della carne come le proteine e il ferro non subiscono modificazioni con la surgelazione.

SCONGELAMENTO

Il consiglio di non ricongelare o risurgelare carne o pesce, o preparazioni alimentari, va osservato. Alcuni alimenti come i cefalopodi o i crostacei, vengono surgelati subito dopo la pesca, poi scongelati e risurgelati più volte per essere mondati, preparati e per dividere le confezioni grandi in più piccole. Queste lavorazioni però vengono fatte in ambienti molto protetti e con attrezzature che garantiscono, almeno dovrebbero, che l’alimento scongelato non venga a contatto con batteri prima di essere risurgelato. In casa è possibile che l’alimento possa essere contaminato e che alcuni batteri possano sopravvivere al ricongelamento per ricomparire la volta successiva. Per questa ragione è bene acquistare confezioni proporzionate a quello che si vuole mangiare, cuocere tutto l’alimento ed eventualmente conservarlo a dovere una volta cotto.

 

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24 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: osservatoriomalattierare.it

 

La sindrome da stanchezza cronica (Chronic Fatigue Syndrome) è un disturbo dalle origine ancora oscure, caratterizzato da una stanchezza prolungata e debilitante, e da multipli sintomi non specifici, quali cefalea, mal di gola ricorrente, dolori muscolari e alle ossa, disturbi del sonno, perdita di memoria, difficoltà di concentrazione e da un malessere generale. I sintomi per definizione si protraggono per minimo per 6 mesi, ma spesso nella realtà per anni.

Dall’Università di Firenze uno studio internazionale ipotizza che la malattia sia la conseguenza dell’esposizione al Cadmio

Il gruppo di ricerca della Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze guidato dai Prof. Gulisano e Ruggiero, ha recentemente pubblicato un articolo scientifico sulla prestigiosa rivista Medical Hypotheses dove si ipotizza per la prima volta una relazione tra esposizione al Cadmio e Sindrome da Fatica Cronica (definita anche Encefalomielite Mialgica). Questa sindrome neurologica invalidante colpisce milioni di persone nel mondo e si calcola che in Italia i malati siano nell’ordine delle centinaia  di migliaia anche se purtroppo in molti di loro la malattia non è correttamente  diagnosticata. Infatti la diagnosi risulta incerta, lunga e complessa e spesso i malati  sono costretti a subire esami diagnostici per mesi e mesi prima di arrivare alla diagnosi. Come per molte malattie neurodegenerative, le cause non sono note e la terapia, spesso soltanto palliativa, ha scarsi risultati. Il gruppo di ricerca fiorentino, nell’articolo pubblicato, ipotizza per la prima volta un legame tra la malattia ed esposizione al Cadmio.

Il Cadmio è un metallo pesante cancerogeno molto diffuso nei paesi industrializzati, che si produce nell’inquinamento urbano, nell’incenerimento dei rifiuti, nell’elettronica da consumo (batterie al Cadmio), nei processi industriali, nell’edilizia e nel fumo di tabacco.

I ricercatori fiorentini, dopo aver dimostrato i danni indotti dal Cadmio sui neuroni umani, hanno messo a punto una tecnica ecografica semplice e priva di rischi che permette di studiare la corteccia cerebrale senza l’uso di radiazioni, in modo da evidenziare fenomeni di infiammazione o di danno cerebrale nei pazienti affetti da Sindrome da Fatica Cronica e nei soggetti esposti al Cadmio. In questa maniera, sarà possibile diagnosticare precocemente i danni neurotossici conseguenti all’esposizione al Cadmio (ad esempio nei fumatori o nelle persone che vivono in prossimità di aree inquinate, di impianti industriali o inceneritori) ed individuare i sintomi della Sindrome da Fatica Cronica in modo da intervenire il prima possibile. Sarà anche possibile monitorare la malattia e la risposta alle diverse terapie in via di sperimentazione nel mondo, con l’auspicio di poter osservare una reversione del danno cerebrale.

Il prestigio internazionale della rivista dove i ricercatori fiorentini hanno pubblicato questo studio all’avanguardia è testimoniato dalla presenza nel comitato editoriale dei Premi Nobel Arvid Carlsson, John Eccles, Frank Macfarlane Burnet e Linus Pauling, e del pioniere della filosofia della scienza, Sir Karl Popper.

L’articolo, con le immagini relative, è reperibile online sul sito della rivista Medical Hypotheses ed è inoltre stato immediatamente inserito nel database della National Library of Medicine (NIH) del Governo degli Stati Uniti d’America.

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21 Marzo 2023 – Redazione – Traduzione di una relazione del Prof. Genovesi –  Dolcevitaonline

 

L’elettrosensibilità o ipersensibilità elettromagnetica (Ehs), da alcuni definita anche con il nome altisonante di allergia al wi-fi, è la presunta malattia di cui si parla fin dal 1932 i cui sintomi sarebbero causati, legati o aggravati dall’esposizione ai campi elettromagnetici, ossia dall’inquinamento elettromagnetico.

Per parlare di elettrosensibilita’ occorre partire dalla prima infanzia. I campi elettromagnetici a diverse frequenze sono in grado di produrre una variazione dei flussi di calcio che attraversano la membrana cellulare. Queste variazioni di flusso, rispetto ad un’esposizione chimica o fisica, sono normali purché rientrino nell’idoneità strutturale della membrana cellulare stessa. Il Prof. Genovesi, medico endocrinologo, immunologo, nonché ricercatore di chiara fama internazionale, del Policlinico Umberto I di Roma, ha potuto constatare, nel corso dei suoi studi, concomitanze di sintomatologie correlate alla sensibilità chimica, all’elettrosensibilita’, alla fatica cronica e alla Fibromialgia, che non sono entità patologiche diverse, ma sono combinazioni concomitanti dal punto di vista patogenetico.

Potremmo classificare le concomitanze

– Caratteristiche genetiche

– Maggiore predisposizione allo sviluppo di   meccanismi di stress ossidstivo

– Concomitanza di meccanismi epigenetici , di condizioni sopraggiunte nel tempo, sia di tipo chimico che di tipo biofisico.

L’epigenetica riguarda quelle condizioni che vengono acquisite nel tempo e che riescono a rimodulare ed interferire con i geni, influenzata da fattori esterni di tipo psicologico. Questa condizione si correla anche ad una composizione di membrane cellulari in cui ricorre spesso un’inadeguata distribuzione degli acidi grassi saturi, insaturi e polinsaturi, che molto spesso sono alterati strutturalmente sia da fenomeni di stress ossidativo, ma anche dal fatto che le nostre fonti alimentari provengono da alimenti che subiscono una cottura spesso sd alte temperature, alterando così la struttura morfologica degli alimenti e delle proteine, che entreranno nella composizione delle membrane cellulari.

Inoltre, abbiamo una tendenza spiccata ad avere un deficit di Vitamina D, perché non sempre trascorriamo del tempo alla luce del sole.La grande parte delle fonti alimentari sono costituiti da Vit. D inattiva! L’attivazione epatorenale a volte e’ interferita da fenomeni ambientali, creando Disbiosi intestinale.

RIEPILOGANDO: LE CAUSE PIÙ FREQUENTI SONO:

– DISBIOSI INTESTINALE 

– DEFICIT DI VITAMINA C

– FATTORI GENETICI ED EPIGENETICI

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DISBIOSI

La disbiosi o disbatteriosi intestinale è un’alterazione o mancata omeostasidella microflora / microbiota normalmente presente nel colon.

In questa sede è infatti presente una straordinaria quantità e varietà di microrganismi – in un grammo di feci si rivengono circa 100 miliardi di cellulevive – anche se la maggior parte di questi è costituita da batteri.

Sono forme molto comuni di disbiosi anche la crescita eccessiva di microorganismi nel tratto del tenue, tra i quali:

  • batteri (SIBO);
  • funghi (SIFO).

Il disturbo è da tenere sotto controllo in quanto si verificano connessioni linfatiche di tipo enteroencefalico (collegamento linfatico tra intestìno e cervello) che implicano un’alterazione della flora entropica intestinale, favorendo fenomeni di tipo neurotossico.

Questa situazione richiede un coacervo di elementi diagnostici, pochissimi dei quali si trovano nelle strutture sanitarie pubbliche. Chiediamoci perché?!
infatti se il paziente vuole studiare ed analizzare se stesso in maniera approfondita, o spende un sacco di soldi privatamente, cercando i medici giusti, o, come si dice in gergo, si attacca al tram!

ES:

– aLa Vit.D è in convenzione Asl
– Lo studio del microbiota no
– Lo studio epigenetico no

Questi studi sono stati condotti solo grazie alla buona volontà di un gruppo di medici sparsi in modo non omogeneo su tutto il territorio nazionale, grazie si quali sono stati distribuiti ai pazienti, questionari per verificare quanti fossero i casi di elettrosensibilita’.

PERCHE’ UN CAMPO ELETTROMAGNETICO PUÒ CREARE DISAGIO E MALESSERE?

La questione è stata affrontata negli anni ‘90 da un gruppo di ricercatori che avevano constststo quanto l’esposizione si campi elettromagnetici (WI-FI in particolare), producesse un aumento della permeabilità della barriera ematocefalica. Questo processo va correlato all’interazione chimica che, esasperata, crea neurotossicita’.

L’uomo moderno conduce la propria esistenza immerso sempre più profondamente all’interno di un vero e proprio mare di campi elettromagnetici della più svariata natura. Da quelli a bassa frequenza generati dagli elettrodotti, dagli impianti elettrici delle abitazioni e da qualsiasi apparecchiatura elettronica domestica o industriale, fino a quelli ad alta frequenza riconducibili ai telefoni cellulari, al WI- FI, ai cordless, al bluetooth, a qualsiasi dispositivo lavori “senza fili”, alle stazioni radio base, ai ripetitori televisivi, ai radar e molto altro ancora.

Le conseguenze sul corpo umano a lungo termine di una simile immersione all’interno di questo mare elettromagnetico non sono al momento note, mancando per forza di cose l’ausilio di studi attendibili ed esaustivi in materia. Ho scritto per forza di cose, dal momento che sarebbe materialmente impossibile produrre studi di questo genere, dal momento che se è pur vero che gli elettrodomestici e le antenne televisive esistono da quasi un secolo, è altrettanto vero che l’incremento esponenziale all’esposizione ad ogni sorta di campi elettromagnetici riguarda esclusivamente gli ultimi vent’anni, un tempo assolutamente troppo breve per prendere coscienza delle conseguenze a lungo termine sulla salute umana.

In linea generale l’esposizione all’inquinamento elettromagnetico è stata messa in relazione con larga parte delle “malattie del progresso”, dai tumori alle malattie autoimmuni, a quelle neurologiche degenerative, alle allergie, fino all’infertilità, ma si tratta ovviamente di supposizioni che pur possedendo solide basi scientifiche non sono supportate da studi e ricerche che abbiano prodotto risultati incontrovertibili.

Quello che invece sappiamo con sicurezza è che una minoranza di noi, circa il 3% della popolazione mondiale secondo l’OMS, soffre di elettrosensibilità e manifesta in maniera più o meno grave una sorta di allergia nei confronti dei campi elettromagnetici. I disturbi più frequenti, che possono comparire con diversi livelli di gravità e scompaiono qualora il soggetto si allontani dalla fonte elettromagnetica, sono cefalea, insonnia, debolezza, riduzione della memoria e deficit di concentrazione, sindromi dolorose, eruzioni cutanee, disturbi uditivi, visivi e dell’equilibrio, alterazioni dell’umore, sbalzi pressori e tachicardia.

I sintomi in questione possono manifestarsi in forma lieve ed essere per questo tollerabili, ma anche in forma grave, fino al punto da compromettere seriamente l’efficienza fisica e la qualità della vita costituendo un vero e proprio handicap. Le terapie farmacologiche, oltretutto mirate semplicemente a lenire i sintomi e non certo a risolvere il problema, si sono rivelate del tutto inefficaci e l’unica vera cura sembra essere costituita dall’evitare l’esposizione ai campi elettromagnetici, un’alchimia che per il malato sta diventando più difficile ogni giorno che passa, all’interno di un mondo sempre più “wireless”.

La OMS e la comunità scientifica si sono fino ad oggi rifiutate di riconoscere l’elettrosensibilità come una vera e propria malattia, preferendo considerarla una sorta di suggestione psicologica, privando in questo modo i soggetti colpiti da questa patologia di qualsiasi tutela e trattandoli alla stessa stregua di un malato psichiatrico. Nonostante ciò il Consiglio D’Europa in una risoluzione del 2011 ha raccomandato agli stati membri di «prestare un’attenzione particolare alle persone elettrosensibili che soffrono di una sindrome di intolleranza ai campi elettromagnetici e di introdurre specifiche misure per proteggerli, inclusa la creazione di aree wave-free, non coperte dalle reti wireless» ed in Svezia la sindrome, pur non essendo riconosciuta come malattia, è riconosciuta dal governo come causa d’invalidità funzionale.

Per chi soffre di elettrosensibilità e molte volte si trova nella condizione di vedere compromessa la propria vita, il lavoro e gli affetti familiari, si tratta insomma di un calvario senza fine e adesso che sta per dilagare la nuova tecnologia 5G un nuovo “mostro” si affaccia spaventoso all’orizzonte.

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18 Marzo 2023 – Rredazione – Botteega.it

Ma quante farine esistono?Semola, farina 00, farina 0, farina 1, farina 2, integrale, farina di farro… Cosa significano questi nomi e questi numeri? Tutto comincia con un cereale e un mulino. Non sempre un cereale a dire il vero, ma nella maggior parte dei casi si. Innanzitutto, quando si parla di farina in generale, ci riferiamo a quella di grano tenero (Triticum Aestivum), anche se in commercio ormai ne esistono di tipi diversi: di cereali, frutta secca oleosa, e addirittura di legumi.

IL PERCHÉ DEI NUMERI DELLA FARINA:”L’ABBURATAMENTO”

Quando la parola farina è seguita da un numero, sappiamo di essere di fronte ad uno sfarinato ricavato dalla macinazione del grano tenero. I vari numeri corrispondono al suo grado di raffinazione, in modo inversamente proporzionale: la farina 00 è la più raffinata, mentre la farina integrale, come suggerisce il nome stesso, è quella più completa, ovvero quella che mantiene le caratteristiche del seme. Ma occorre sapere che questa classificazione vale solo per la farina di grano tenero, e per comprendere la differenza che c’è tra farina 00, 0, 1, 2 e integrale, bisogna partire dalla parola abburattamento.

PER SEMPLIFICARE POSSIAMO IMMAGINARE IL FRUTTO SECCO DEL GRANO COME FORMATO DA 3 PARTI:

crusca e cruschello (esterno)
• endosperma (interno)
germe di grano (nella parte inferiore dell’endosperma)

Il tasso di abburattamento di una farina indica quanta parte del chicco è stata utilizzata per produrla. Quindi è direttamente proporzionale alla crusca contenuta.

Nel caso delle farine integrali, che utilizzano anche la crusca del grano, l’abburattamento sarà maggiore. Quando invece le farine sono chiare, fini, leggere, l’abburattamento è basso, perché si usa principalmente la parte centrale del chicco e si elimina il rivestimento esterno. Quindi, la quantità di crusca contenuta, è il criterio in base al quale si classificano le farine di grano tenero secondo la legge italiana, come stabilito dal decreto n.187 del 9 febbraio 2001. Il problema di questa classificazione è che permette di chiamare integrale anche una farina che non contiene davvero tutto il chicco. E questo lo vedremo più avanti!

GRADO DI ABBURATAMENTO DELLE FARINO

  • Farina 00 – 50%
  • Farina 0 – 72%
  • Farina 1 – 80%
  • Farina 2 – 85%
  • Farina integrale – 100%

FARINA 00

La farina 00 è la più raffinata di tutte e si può ottenere solo attraverso mulini a cilindri, che eliminano crusca e germe per conservare e macinare molto finemente solo l’endosperma, la parte interna del chicco. Chiamata anche fior di farina, è priva di crusca e di colore bianco candido, è finissima e conferisce ai prodotti una gran morbidezza. Dal punto di vista nutrizionale contiene principalmente solo amido (68,7 g su 100 g), quindi tanti carboidrati (77,3 g) e pochissime proteine (11 g), fibre (2,2 g) e sali minerali (0,5%). In cucina è l’ideale per dolci, creme, salse e pasta fresca all’uovo.

FARINA 0

La farina 0 è simile alla 00 ma contiene un po’ di crusca, pur restando molto fine e bianca. La 0 è il tipo di farina più raffinata che si possa ottenere con una macinazione a pietra, lenta e a bassa temperatura. La legge però consente di produrla anche dalla farina 00 con l’aggiunta di crusca. Si tratta in questo caso di farina ri-assemblata. Rispetto alla 00, la 0 ha una percentuale leggermente maggiore di proteine (11,5 g su 100 g), fibre (2,9 g su 100 g), sali minerali e leggermente meno amido (67,7 g su 100 g). Gli utilizzi sono praticamente gli stessi della farina 00.

FARINA 1

La 1 è leggermente meno raffinata della 0, rispetto alla quale ha una maggior quantità di crusca (membrana esterna del seme) e cruschello (pellicola intermedia) ed è leggermente più scura. Si ottiene con la molitura a pietra e successivo passaggio in un setaccio (buratto). È l’ideale per la preparazione di pane e pizza, ma per dolci che non devono svilupparsi molto in altezza.

FARINA 2

La 2 è chiamata anche farina semi-integrale, perché non si differenzia molto da quest’ultima. È considerata un buon compromesso tra apporto di sostanze nutritive, gusto e leggerezza dei prodotti. Dà risultati più vicini al gusto moderno rispetto ad un’integrale. Si può usare in cucina più o meno come la farina 1, ma essendo più pesante darà probabilmente prodotti più densi e meno soffici. Rispetto all’integrale, invece, la 2 è più facile da lavorare e far lievitare.

FARINA INTEGRALE

La farina integrale è quella che contiene tutte le parti del chicco – crusca, germe ed endosperma – e si può ottenere solo con la molitura a pietra. Sono però in commercio molte farine dette integrali ma ATTENZIONE….ottenute aggiungendo crusca alla farina 00: le cosiddette farine integrali riassemblate o ricostituite. Ma tornando alla farina integrale vera – o completa: gli apporti di vitamine e altri elementi (come calcio, fosforo e magnesio) sono praticamente intatti e molto più alti rispetto alle altre farine. Il livello di amido risulta il più basso tra le diverse farine (59,7 g su 100 g), così come il livello di carboidrati (67,8 g su 100 g). La quantità di proteine (11,9 g su 100 g), sali minerali (2,2%) e fibre alimentari (8,4 g su 100 g) è invece maggiore che in tutte le altre farine. Setacciando la farina integrale macinata a pietra, si possono ottenere le farine 0, 1, 2.

FARINA MANITOBA

Ecco uno sfarinato di grano tenero il cui nome non dipende dalla lavorazione ma dal contenuto in gliadina e glutenina: la farina Manitoba sviluppa molto glutine e può sostenere lunghe lievitazioni. Una farina di forza, particolarmente utile a chi confeziona lievitati che richiedono un grande sviluppo in altezza, come panettoni e colombe. Questa farina prende il nome dall’omonima regione del Canada in cui è stata coltivata inizialmente, ma oggi la parola Manitoba indica tutte le farine di grano tenero con un’alta percentuale di glutine – il 15% circa, contro un 10% circa di quelle più comuni.

SEMOLA

Con la parola semola ci riferiamo di solito a uno sfarinato di grano duro, un tipo di frumento tipico del Sud Italia. La semola è gialla e profumata e più grossolana rispetto alla farina di grano tenero, con granelli molto spigolosi. Si usa soprattutto per preparare la pasta, ma anche nei pani e nelle pizze rustici, miscelata con altri sfarinati. È più pesante della maggior parte delle farine di grano tenero e difficile da lavorare, per questo si tende a sostituirla o ad usarla in piccole percentuali. Non è un ingrediente della pasticceria italiana, ma compare in alcune ricette dolci regionali, soprattutto nelle frolle, come la pasta violada.

SEMOLA RIMACINATA

Con una seconda macinazione la semola diventa più soffice e leggera: si parla in questo caso di rimacinato di semola o semola rimacinata o più raramente di semolato. In panificazione, il  rimacinato si preferisce alla semola perché è più facile da lavorare e permette una maggiore crescita degli impasti. Semola e semola rimacinata sono oggi prodotte perlopiù con mulini a cilindri, ma è anche possibile trovare in commercio la semola macinata a pietra: quella ‘normale’, privata della maggior parte della crusca, e quella integrale.

FARINA DI GRANO DURO

La farina di grano duro o fiore è la parte più sottile della semola, che si ottiene dopo vari passaggi in setacci dalle maglie sempre più fitte. Oggi è difficile trovarla in commercio, ma una volta era l’ingrediente base dei dolci tradizionali sardi e dei pani più pregiati – chiamata in sardo su scetti.

FARINA DI KAMUT

La farina di Kamut è uno sfarinato ottenuto da un grano molto proteico appartenente alla varietà Khorasan, da sempre coltivata in Medioriente. Kamut infatti non è il nome del cereale ma un marchio registrato da un’azienda americana. La farina di Kamut è abbastanza costosa, ma esistono farine simili: quelle di grano Khorasan, coltivato anche in Italia col nome di Saragolla.

FARINA DI FARRO

Il farro è un antenato del grano tenero, rispetto al quale contiene più proteine. Per questo la farina di farro è simile alla farina più convenzionale, ma più scura e saporita, e può sostituire la farina di frumento tenero ovunque, per un risultato più rustico. Per sfruttare al meglio le proprietà del cereale, meglio usare una farina di farro integrale.

FARINA D’ORZO

La farina d’orzo ha un profilo nutrizionale simile a quella di grano tenero, ma molto meno glutine. Usarla in purezza nella preparazione del pane non è una buona idea se volete un prodotto leggero ed alveolato. Si può comunque miscelare a farine più forti per aggiungere sapore e rusticità. Stesso discorso per i dolci: meglio usarla per quelli che non richiedono troppa leggerezza e sofficità, come biscotti o ciambelloni.

FARINA DI SEGALE

La farina di segale è scura e pesante e contiene poco glutine. Ci si preparano quei saporitissimi pani tedeschi compatti e umidi, pieni di semini. Ma usarne un pochino in aggiunta alle farine a cui siamo più abituati può dare al pane un sapore davvero interessante senza comprometterne la lievitazione.

FARINA DI RISO

La farina di riso è bianchissima, impalpabile e dolce, e non contiene glutine. Può sostituire la farina di grano tenero nei dolci che non devono svilupparsi molto in altezza, anche se il sapore e la consistenza sono chiaramente riconoscibili. Ad esempio: frolle, biscotti e torte dense e basse tipo tarte tatin. È ottima anche per impanature e fritture croccantissime e leggere, come la famosa tempura. In tutti i casi è meglio usare la farina di riso integrale, che contiene più fibre e ha un indice glicemico leggermente più basso.

FARINA DI MAIS

La farina di mais è gialla, granulosa e saporita e non contiene glutine. Esiste in tre varianti:

  • bramata, la più grossa
  • fioretto, di media granulometria
  • fumetto, la più sottile

La farina bramata dà croccantezza e si presta molto alle impanature e all’insemolatura del pane. La farina fioretto è quella più usata per la polenta, anche se è preferibile miscelata con quella bramata. La farina fumetto è la più adatta alla pasticceria secca, a biscotti e frolle. Come non amare le paste di meliga piemontesi? Il mais può essere anche bianco, ma la farina di questo cereale è molto più rara.

FARINA DI MIGLIO

La farina di miglio è scura, pesante e leggermente amarognola. Il miglio è un cereale senza glutine molto digeribile ma con un sapore particolare, per questo è meglio usare lo sfarinato in combinazione con altre farine. Si presta alla preparazione di polente e crepes, dolci o salate e può essere aggiunto ai biscotti e in piccole dosi anche al pane.

FARINA D’AVENA

La farina d’avena è abbastanza leggera e dolce. Non dovrebbe contenere glutine, ma ai celiaci si consiglia di consumare solo quella certificata, che garantisce l’assenza di possibili contaminazioni. Come quella di riso, può sostituire facilmente la farina di grano nei dolci bassi e densi: biscotti, crepes, pancake, budini, creme. Ma si può anche aggiungere in piccole dosi agli impasti di pane e torte per dare morbidezza e sapore.

FARINA DI GRANO SARACENO

Il grano saraceno è uno pseudo cereale da cui si ottiene una farina senza glutine, usata per la polenta taragna della Valtellina: quella gialla e nera, che sa più di integrale. Nella Val di Non invece si prepara con la farina di grano saraceno una particolarissima torta arricchita da nocciole e marmellata di mirtilli.

Come altre farine senza glutine, può sostituire il grano nelle preparazioni che non richiedono lievitazione, ma bisogna essere preparati ad un sapore molto deciso. I bretoni la usano nelle loro crepes salate nere: le galettes.

FARINA DI CECI

La farina di ceci è l’unica farina di legumi abitualmente usata in Italia ed è ovviamente senza glutine. È l’ingrediente fondamentale della cecina toscana e della farinata ligure, schiacciate di farina e acqua, cotte al forno con tanto olio d’oliva. Ma la si può mangiare anche sotto forma di polenta, per cambiare un po’.

FARINA DI CASTAGNE

Questa farina si ottiene dalle castagne disidratate naturalmente, cioè semplicemente lasciate seccare. È un prodotto molto particolare, ma comune nelle zone di montagna. Sugli Appennini e sulle Alpi è tradizione cucinare il castagnaccio: una schiacciata semidolce – o semisalata? – con pinoli, uvetta e rosmarino.

Inutile dire che potete usare la farina di castagne anche per preparare crepes e pancakes senza glutine e naturalmente dolci.

FARINA DI MANDORLE

La farina di mandorle è una delle poche in Italia ad essere ricavata da un frutto secco oleoso. Tradizionalmente è molto usata in Sardegna e Sicilia, dove i dolci di pasta di mandorle sono all’ordine del giorno. Non dimentichiamoci però della Campania con la sua meravigliosa torta caprese! Oggi la farina di mandorle vive un vero boom mondiale come ingrediente fondamentale dei dolci gluten free e paleo, nei quali sostituisce completamente le farine di cereali.

FARINA DI NOCCIOLE

La farina di nocciole non è popolare come quella di mandorle, ma è un prodotto tipico del Piemonte e della Lombardia e l’ingrediente base dei buonissimi baci di dama. Oggi sta trovando sempre più spazio anche nella pasticceria senza glutine e paleo e può essere miscelata alle farine di cereali per ottenere fantastici biscotti, e torte.

FARINA DI COCCO

La farina di cocco seppur non tradizionale, è abbastanza diffusa e da decenni si usa soprattutto nei dolci al cioccolato. È un vero e proprio sfarinato, da non confondere col cocco rapé. Si può usare in modo del tutto simile alla farina di mandorle e cocco, tenendo presente il suo sapore inconfondibile che emerge sopra qualsiasi altro ingrediente.

ALTRE FARINE

Oggi nei negozi specializzati possiamo trovare farine di tutti i tipi, anche di legumi, come quelle di lenticchie o piselli, o di cereali rarissimi come il teff. Se hai voglia di sperimentare, puoi prepararci della pasta fresca colorata e gustosa. Non avrà la stessa consistenza di quella di grano duro, ma potrebbe stupirti piacevolmente.

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18 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: botteega.it

 

In passato in Sardegna si produceva un particolare olio da una pianta della macchia mediterranea, il lentisco (o lentischio). L’olio di lentisco si usava come sostituto di quello d’oliva, ma anche come unguento dalle proprietà medicamentose.

Una tradizione che si è persa nel corso del ventesimo secolo, con l’aumento della disponibilità economica e la possibilità di acquistare l’olio d’oliva, e quindi di averlo anche se non lo si produce.

Come è facile immaginare, un tempo questo prodotto abbondava solo sulle tavole dei ricchi, anche perché non erano rare le annate cattive, con raccolti scarsi. I poveri spesso si arrangiavano con strutto e olio di olivastro.

Il nome sardo oll’e stincu sembrerebbe essere nato da un errore. Ollestincu (con le sue varianti ollistincu, stincu,  listincu) sarebbe il nome della bacca e non dell’olio o della pianta, che viene invece chiamata, a seconda della zona, chessa, modditzi o modditha.

Caratteristiche del lentisco

È una pianta tipica della macchia mediterranea, molto simile al mirto. È un arbusto sempreverde con una chioma molto fitta, che può arrivare fino a 3-4 metri d’altezza. In Sardegna, sotto i 400 metri s.l.m., lo si trova quasi in qualunque terreno non coltivato e lo si riconosce facilmente dalle bacche, rosse e tonde, che maturano d’inverno ma son ben visibili anche in estate e autunno.

In primavera, invece, lo troverete coperto di fiori.

Proprietà e usi

L’olio di lentisco ha interessanti proprietà nutrizionali e curative. Ha una resa piuttosto bassa (8-13%), ma la distribuzione di acidi grassi (acido oleico 50-60%, acido palmitico 20-30%, acido linoleico 10-25%) è simile a quella di piante oleaginose con resa molto più alta. In passato si usava per cucinare e alimentare le lanterne, ma anche per le sue proprietà medicinali. Era un unguento per lenire i dolori reumatici e per velocizzare la guarigione delle ferite.

Oggi quest’olio non viene quasi più consumato come alimento, ma ha trovato altre applicazioni, in particolare in campo dermatologico. Ha ottime proprietà lenitive, efficaci nella cura di irritazioni, bruciature, dermatiti e anche psoriasi. In generale ha un effetto benefico sulla pelle: combatte l’invecchiamento e stimola la rigenerazione cellulare, tonifica e idrata.

Grazie alla presenza di diverse sostanze benefiche, tra cui acidi grassi monoinsaturi, steroli e tocoferoli, aiuta a guarire da problemi respiratori come bronchiti e tracheiti.

Gli sono state inoltre riconosciute importanti proprietà antitumorali, essendo un valido aiuto nella regolarizzazione del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue.

All’olio di lentisco vengono attribuite tante proprietà per la nostra salute. Vediamo quali sono i suoi benefici:

  • favorisce la regolarità intestinale
  • cura alcune patologie gastriche
  • aiuta a curare la gastrite perchè depotenzia il battere l’Helicobacter pylori, batterio che ne è la causa, grazie alle sue qualità antisettiche e antibatteriche
  • regolarizza il colesterolo e agisce positivamente sui trigliceridi
  • allevia i disturbi da reflusso gastrico e da ernia iatale
  • aiuta a sedare le infiammazioni delle vie aeree, sedare la tosse
  • previene la formazione di placca in caso di gengiviti e afte, e combatte l’alitosi. Si usa facendo risciacqui e gargarismi
  • ha un’azione antitumorale: sembra che l’olio di lentisco abbia una efficacia antitumorale nel combattere le cellule di alcuni tumori
  • è indicato nel trattamento di affezioni a livello uro-genitale quali cistiti, uretriti, ureteriti, leucorrea e prostatiti: si usa per lavaggi.

Tradizionalmente l’olio accompagna i rituali delle berbadoras, ovvero quelle figure femminili che, ancora oggi, curano certi malanni con riti di magia bianca, figli di un paganesimo ancestrale mischiato a cattolicesimo (is berbos/brebus).

Anticamente anche il resto della pianta di lentischio si usava in vari modi. Con le frasche si costruivano le scovittas (scopette) per pulire il forno a legna. Il mastice (resina) e le foglie servivano anche da dentifricio: spesso i pastori e i contadini le masticavano per gli effetti positivi su denti e gengive.

Dal tronco si ricava una resina usata sia per il trattamento delle gengiviti e infezioni del cavo orale, che per combattere i sintomi del reflusso gastroesofageo, grazie alle proprietà lenitive dell’olio essenziale che contiene. Viene chiamata Mastice di Chios, dal nome dell’isola greca dove è principalmente prodotta.

Come si fa l’olio di lentisco?

Per ottenere l’olio di lentisco vengono utilizzati 2 diversi metodi: spremitura a caldo e spremitura a freddo. Entrambi i metodi sono piuttosto lunghi e laboriosi, bisogna armarsi di tempo e pazienza.

Spremitura a caldo

In passato l’olio si ricavava dalla spremitura a caldo delle bacche. Il risultato era un prodotto dal sapore forte e acre, che doveva essere trattato prima dell’uso. Per addolcirlo, lo si scaldava in una padella con del pane, oppure ci si mettevano dei fichi a macerare. La lavorazione avveniva all’interno di contenitori di rame, chiamati caddargios. Oggi vengono utilizzati contenitori in acciaio inox. Inizialmente si faceva bollire l’acqua e venivano immerse le bacche per circa 15-20 minuti. In seguito veniva travasato il tutto in una sacca. A questo punto si eseguiva la spremitura (carcadura), aggiungendo ogni tanto dell’acqua.

In passato per questa operazione venivano utilizzati i piedi o una macina. Per eliminare le impurità e per facilitare la separazione, l’estratto ottenuto dalla spremitura veniva bollito un’altra volta. Tramite un colino veniva levata la parte più densa. Dopo un po’ di attesa, l’olio sale in superficie: a questo punto viene estratto con cucchiai e mestoli e filtrato nuovamente con panni di lino.

Spremitura a freddo

Questo metodo è il più consigliato in quanto preserva le qualità nutrizionali e medicinali e ritarda l’irrancidimento, allungando la conservazione. La resa è minore, ma si ottiene un prodotto di maggior qualità. Le bacche, una volta raccolte, subiscono una prima pressatura, tramite un pestello. Vengono pestate e mescolate fino ad ottenere una sorta di pasta. A questo punto, tramite un torchio, viene effettuata una seconda pressatura. Inizialmente si ricava del succo accompagnato da un po’ d’olio. Questo dovrà essere messo da una parte. In seguito, uscirà soprattutto olio.

Ora avviene la fase della filtrazione, per eliminare la parte più densa. A questo punto avviene la separazione dell’olio dal liquido: basterà attendere e l’olio salirà in superficie. Ora, armati di pazienza, bisognerà raccogliere l’olio con un cucchiaino o un oggetto simile. Questa operazione bisognerà ripeterla più volte, per riuscire a ottenere un olio più puro possibile.

 

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13 Marzo 2023 – Redazione – dal sito eventidimenticati.it

 

Cosa si nasconde dietro al cibo, quali significati simbolici, valoriali, culturali e sociali si celano dietro all’alimentazione? Che importanza riveste l’opulenza in un banchetto ed intorno alle devianze alimentari?

Alle origini

Il cibo è una funzione/segno a tutti gli effetti: ricopre di certo una funzione primaria, il nutrimento, ma, appagata l’esigenza fisiologica, si struttura subito in segno (vale a dire, rifacendoci a Saussure, quella complessa realtà a due facce costituita dalla relazione tra significante e significato). Come funzione, ancora, il cibo acquista senso dal momento che si presuppone sempre una società in cui viene usato. La Bibbia si apre con un atto alimentare. Dietro questo primigenio gesto dell’umanità possono già essere rintracciate alcune delle sfere simboliche che più spesso vengono associate al cibo: la sessualità/sensualità, legata a doppio filo all’ambiguità del ruolo della donna(dispensatrice di cibo, ma ingannevole) che, peraltro, ne sarà segnata per millenni; la tentazione della gola (uno dei sette peccati capitali), vale a dire il cibo concepito come forma di trasgressione che, in quanto tale, va regolamentato e irreggimentato; infine (con uno slittamento, gravido di conseguenze, dal materiale al simbolico), un alimento come emblema di conoscenza, passaggio di stato, assimilazione o partecipazione a una nuova condizione esistenziale.

L’uomo è un mangiatore simbolico e sociale, non unicamente biologico. Il cibo diventa di conseguenza uno strumento di comunicazione non dissimile dal linguaggio. Il consumo del cibo e la sua preparazione riflettono profonde differenze culturali. In antichità classica i consumi alimentari marcano identità: la polenta di farro è il cibo italico, quella d’orzo è pasto greco. I greci, che intorno al cibo costruiscono un sofisticato sistema di costituzione identitaria che li separa da usanze barbare, si autodefiniscono “mangiatori di pane”: anche nell’Iliade e nell’Odissea questa terminologia è utilizzata come sinonimo di “uomini”, additando gli altri popoli come cannibali o mangiatori di carne cruda, allontanandoli ideologicamente da sé stessi, in quanto descritti come mangiatori di carne cotta e perché avevano ricevuto in dono dagli dei i cereali, miele, olivo, vite e vino. Attraverso il cibo l’altro viene squalificato a livello animale. Così come per il pane, anche la birra e il vino, cibi non naturali, ma ottenuti attraverso un processo, acquisiscono un evidente valore simbolico. L’atto di cucinare del cibo, del cucinare una pietanza, è possibile grazie alla sua cottura, ovvero grazie all’utilizzo di un fuoco. La conquista del fuoco, non a caso, è considerata l’incipit della società umana, la scoperta che distingue natura e cultura. Per gli antichi greci il fuoco era una prerogativa divina, di cui Prometeo si impossessò rubandolo al dio Efesto.

Grandi banchetti

Il cibo diventa altresì indice di discrimine sociale nel momento in cui qualcuno ne chiede e ottiene più di altri, una prerogativa insita dell’evoluzione. L’avvento della cottura incrementa il pregiudizio in favore dei lauti pasti: provoca l’effetto di rendere più piacevoli i pasti, una tentazione per la gola. Un appetito gigantesco è non a caso considerato una prerogativa delle classi sociali agiate in quasi tutte le società. Nell’antichità le leggendarie imprese a tavola non sono dissimili da quelle in battaglia. Un consumo eccessivo di cibo non solo ricopre un valore sociale ma risulta anche utile perché l’eccedenza si riversa su chi è povero: le briciole cadute da tavole abbondanti sono sempre state considerate sinonimo di generosità. Fino all’Occidente medievale l’ingordigia dei pranzi “baronali” era necessaria per rafforzare i rapporti devozionali nei confronti del signore: nel 1466, al banchetto che festeggia l’instaurazione dell’arcivescovo di York, si contano 870 ettolitri di frumento,  300 botti di birra e 1000 di vino, 104 bovini, 6 tori selvatici, 1000 pecore, 304 vitelli, 304 suini, 400 cigni, 2000 oche, 1000 capponi, 2000 maialini a latte, 400 pivieri, 100 dozzine di quaglie, , 200 dozzine di femmine di piovanello, 104 pavoni, 4000 tra germani e alzavole, 204 gru, 204 capretti, 2000 polli, 4000 piccioni, 4000 gamberi di fiume, 204 tarabusi, 400 aironi, 200 fagiani, 5000 pernici, 400 beccacce, 100 chiurli, 1000 egrette, più di 500 cervi, 4000 pasticci di cacciagione, 2000 creme calde, 608 tra lucci e abramidi, 12 tra focene e foche  e una quantità infinita di spezie, dolci, cialde e torte. Una tavola imbandita resta segno di prestigio sociale in Occidente fino agli inizi del XX secolo, mentre il pasto principale (quella che veniva chiamata colazione e che noi oggi chiameremmo pranzo) viene slittato ad ora sempre più tarda: alla fine del ‘700 gli uomini di provincia inglese pranzano alle 16, a segnalare il loro privilegio, differentemente agli appartenenti della classe povera, che devono svegliarsi presto per andare a lavorare, di non avere vincoli orari).

Tre sono i modi per coniugare gli ideali di austerità ed eccesso: selezionando cibi scelti, bizzarri o rari, in grado di nobilitare anche piccole porzioni di pietanza, preparare in maniera elaborata modeste quantità, adottare un’etichetta su come si mangia, che va a sostituire il quanto si mangia. Il moderno Galateo overo de’ costumi, di Giovanni Della Casa, pubblicato nel 1558, sintetizza l’etichetta di una classe sociale agiata a metà del secolo XVI, sottolineando il momento del pasto come occasione di corroboramento sociale.

Devianze alimentari

Ricoprendo il cibo un valore culturale e sociale ne consegue che la devianza alimentare non assume meramente una dimensione medica, ma che può essere ricondotta a una difficoltà di relazione con il complesso sociale di appartenenza. Se nell’antichità le devianze e le crisi di qualunque tipo potevano essere controllate e assorbite da specifici rituali, se nelle civiltà etnologiche i meccanismi di mediazione e le forme di controllo assurgevano a ricoprire una funzione simbolica e istituzionale, diversa è la condizione delle società odierne occidentali, opulente, multietniche e cosmopolite, prive di un rituale che coinvolga l’intera comunità e in cui la “patologia” rimane appannaggio del singolo.

Attualmente l’estetica non prevede la contemplazione del grasso, anche se nell’immaginario occidentale fino al secolo XIX le forme tondeggianti erano considerate un canone di bellezza generalmente apprezzato: grasso voleva dire ricco. Si pensi alle “Veneri steatopigiche” del Paleolitico, ai modelli greci, ellenistici e romani, alla donna seminuda che allatta nella Tempesta di Giorgione, alla Maya nuda di Goya, all’Eva dell’Adamo ed Eva di Klimt. Tuttavia, differentemente dal Giappone, dove è presente il tempio-stadio del Sumo, arrivato dalla Mongolia tramite la Corea, in cui il sumôtori non vive una semplice esperienza atletica, ma anche religiosa, poiché alla fine di ogni incontro offre alla divinità una carta consacrata, l’Occidente non ha mai conosciuto un luogo circoscritto, sacro e riconosciuto, in cui il grasso ricoprisse un ruolo di eccellenza.

Da un punto di vista medico i sintomi bulimici sono stati descritti a partire dal secolo XIX. Tuttavia la prima descrizione di un comportamento bulimico risale al secolo III a.C, nell’Inno a Demetra di Callimaco, in cui la malattia che colpisce il protagonista Erisìttone lo spinge a cibarsi senza controllo. Nell’universo culturale greco Erisìttone aveva abbattuto gli alberi sacri alla dea Demetra per farne mense su cui banchettare con gli amici. In altre parole il mito mostra, tramite la legge del contrappasso, le conseguenze che portano ad un livello sub-umano, la una violazione di un codice comportamentale. La trasgressione si traduce in un disordine devastante che provoca la distruzione della famiglia del protagonista, che simboleggia l’intera comunità umana. Di anoressia già si discuteva tra i secoli XVII e XVIII, ancora nel XIX secolo era circondata da un alone di misticismo: se la bulimia evoca il sub-umano, l’anoressia evoca il super-umano. Si pensi a Caterina da Siena e ad altre sante anoressiche medievali, che tramite il digiuno cosciente ambivano a superare il limite del corpo per ascendere al mondo divino. Il Giappone accanto ai sumôtoriconosce i miira, mistici ascetici che rinunciano a nutrirsi fino a raggiungere un processo di mummificazione che li farà chiamare i “santi dal corpo incorrotto”. L’Occidente non conosce un Budda pasciuto, ma un Cristo emaciato che nei primi secoli dell’impero romano supera la concezione del corpo come tempio atletico e concepisce la figura maschile come ostacolo al conseguimento dell’unione con il divino e la figura femminile come “materia” che trattiene l’uomo nel mondo. È una visione perdurante anche nel Medioevo, dove la donna viene spesso additata come strumento del demonio. Ciò spiega perché le estreme forme di ascesi alimentare abbiano coinvolto soprattutto le donne, che tramite questa pratica si riscattavano, abiurando il limite carnale e superando il diffuso disagio sociale che ruotava attorno alle loro forme. Quando il cibo viene rifiutato si mette in discussione l’intera struttura sociale, culturale e comunitaria che lo ha prodotto e che da esso viene a sua volta influenzato: da qui la nascita di appositi meccanismi volti a controllare la devianza che, se non sufficienti, vengono sostituiti dall’espulsione del “deviato”. Oggi che la bulimia e l’anoressia sono state adottate integralmente dalla scienza medica e sono state catalogate come malattie, vanno ad esprimere un disagio sociale e culturale e si rivelano tentativi per palesare l’incomodo esistenziale sempre più diffuso nella società contemporanea: il cambiamento delle scelte alimentari e le devianze alimentari, ovvero la rottura di una norma rituale, comporta un rifiuto di significati simbolici. Dietro al cibo, insomma, si nasconde molto di più di quello che può sembrare…dopotutto dietro ad un italianissimo piatto di pasta al pomodoro non si cela forse il desiderio di conoscenza proprio dell’uomo, quello che spinse Colombo fino al Nuovo Continente come un moderno Ulisse fino alle Colonne d’Ercole?

Fonti:

Dante Alighieri, Inferno

Carrara Lorena, Intorno alla tavola. Cibo da leggere, cibo da mangiare, Codice edizioni, Torino, 2014

(a cura di) Flandrin Jean-Louis, Montanari Massimo, Storia dell’alimentazione, Editori Laterza, Bari, 1997

Fernández-Armesto Felipe, Storia del cibo, Bruno-Mondadori, Milano, 2010

L’ora nel pranzo della storia, conferenza di Alessandro Barbero, link: https://www.youtube.com/watch?v=xxv426ym9LU

Scarpi Paolo, Il senso del cibo, Sellerio editore Palermo, 2005

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12 marzo 2023 – Redazione

L’eccellenza italiana continua a far parlare di se’, anche se l’Europa, con le sue ridicole e ipocrite leggi e leggine, vorrebbe affossare il Made in Italy. In Sardegna è infatti nato un nuova qualità di riso nero. Si chiama “Riso Jolly nero” e da poco è nell’elenco del registro parietale dell’Ente nazionale risi.

Il produttore è Gianni Meli, uno dei più grossi risicoltori della provincia di Oristano con produzioni nelle campagne di Cabras, Oristano, Silì, Zeddiani e Baratili San Pietro. Figlio d’arte: il papà era Tatano Meli, uno dei maggiori imprenditori risicoli italiani, per anni presidente dell’Unione provinciale agricoltori di Oristano e dirigente nazionale della Confagricoltura. A Cabras, paese d’origine di Gianni Meli, all’interno della nuova cantina Contini si è svolta la presentazione del nuovo prodotto, su progetto iniziato nove anni fa, e che ha raccolto, nel tempo, ricerche e sperimentazioni sulle sementi. Come ha spiegato il Consiglio per la ricerca in agricoltura, l’azienda ha scelto di fare l’iscrizione con la protezione della varietà.

“Questo significa che chiunque potrà migliorare la qualità del riso ma dovrà per forza coltivarlo nei terreni di proprietà dell’azienda che lo ha creato. All’azienda, quindi, si dovrà sempre riconoscere la paternità”

Gianni Meli racconta come è nato questo progetto: «Innanzitutto dalla voglia di crescere – ha commentato – La passione per il riso all’interno della mia famiglia c’è semp

A Cabras, paese d’origine di Gianni Meli, all’interno della nuova cantina Contini c’è stata la presentazione al pubblico del nuovo prodotto. Si tratta di un progetto iniziato nove anni fa, e che ha raccolto nel tempo ricerche e sperimentazioni sulle sementa. Come ha spiegato il Consiglio per la ricerca in agricoltura, l’azienda ha scelto di fare l’iscrizione con la protezione della varietà. Questo significa che chiunque potrà migliorare la qualità del riso ma dovrà per forza coltivarlo nei terreni di proprietà dell’azienda che lo ha creato. All’azienda, quindi, si dovrà sempre riconoscere la paternità.

Gianni Meli racconta come è nato questo progetto: «Innanzitutto dalla voglia di crescere – commenta – La passione per il riso, all’interno della mia famiglia, c’è sempre stato. Ecco perché ho voluto creare qualcosa di nuovo, di diverso. Prima di commercializzare il riso confezionato ci sono voluti tantissimi anni, sia  per la ricerca della spiga giusta, per gli esiti delle commissioni varie e infine per i controlli da parte del Crea, il Consiglio superiore per la ricerca in agricoltura». Per l’azienda Meli, questa nuova varietà è un sogno che si realizza. Per ora sono stati prodotti 600 quintali di riso nero. Circa centocinquanta sono già negli scaffali dei supermercati di Cabras e di Oristano.

Il nuovo prodotto è stato apprezzato anche dagli chef invitati alla presentazione del nuovo prodotto isolano.

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06 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: La Mente è Meravigliosa

Mostrarsi grati è più di una forma di educazione, è un modo per superare le barriere e raggiungere una dimensione più emotiva, personale e anche spirituale. Perché non ringraziare la vita per il fatto di averla? Perché non riconoscere agli altri i loro pregi e le caratteristiche che amiamo?

E ancora, perché non ringraziare noi stessi per la nostra integrità, il nostro coraggio e la nostra forza?

Lo sappiamo tutti, a volte non è proprio facile addentrarsi nelle “conoscenze del cuore”, quelle a cui si riferisce Lao Tse con l’aforisma di apertura. Ogni giorno il nostro cervello ci guida verso la strada più obiettiva e razionale, lì dove risiedono alcuni rancori, alcune frustrazioni.

Il semplice fatto di mostrare gratitudine implica una liberazione personale. Essere grati significa riconoscere, agire con umiltà e senza artifici, imparare a valorizzare quello che davvero è importante nella vita. Oggi parleremo soprattutto di questo, del valore e del potere della gratitudine.

I 4 pilastri della gratitudine

1. Apertura emotiva

Perché tante persone fanno fatica a dire “grazie”? Quando facciamo qualsiasi cosa per qualcuno a cui teniamo, non ci aspettiamo “obbligatoriamente” quel “grazie”, segno di cortesia e di buona educazione. Quello che cerchiamo davvero è la riconoscenza, che si capisca che ci siamo preoccupati, che abbiamo dedicato non solo il nostro tempo agli altri, ma anche parte delle nostre emozioni.

Le persone che non mostrano gratitudine di solito presentano le seguenti caratteristiche:

  • Negazione emotiva: evitano di aprirsi agli altri e spesso agiscono con diffidenza o in maniera autosufficiente. In realtà, mancano di una solida autostima e dentro sono piuttosto fragili.
  • Agiscono con egoismo: si dimostrano ingrati e, a volte, anche superbi.
  • Non mostrare riconoscenza verso gli altri significa non riconoscere se stessi, di conseguenza sono persone che mancano di abilità emotive.

2. La gratitudine e la riconoscenza sono i regali migliori dell’essere umano

Pochi valori sono così potenti come riconoscere i nostri simili mediante la gratitudine. È un modo universale di conoscere e di unire, di creare legami. “Io ti sono grato per quello che sei, per le tue virtù, per il tuo modo di essere, ti ringrazio per fare parte della mia vita arricchendola con la tua presenza”.

3. Mostrarsi grati non significa essere in debito

C’è chi pensa che il semplice fatto di ricevere qualcosa e di dover ringraziare significhi subito essere in debito con quella persona che ha detto o fatto qualcosa.

Se dentro di voi risiede questa sensazione, quella di sentirsi in obbligo verso qualcuno che vi ha fatto un favore, di certo non state mettendo in pratica una gratitudine libera, sincera e spontanea. La gratitudine è un atteggiamento che non esige obblighi, è un modo di essere che va oltre le nostre azioni.

Se fate qualcosa per vostro fratello o per una vostra amica, non segnatelo sull’agenda nella speranza che vi restituiscano il favore prima o dopo. Lo fate perché volete o perché “riconoscete” quella persona come parte di voi, lo avete fatto liberamente e senza aspettarvi nulla in cambio.

A questo punto, non si tratta di farsi restituire il favore, quanto che gli altri mostrino riconoscenza. Stabiliamo un legame con l’altro in modo da formare un’unità. Proprio come suggerisce la parola “Namasté” (io ti saluto, io ti ringrazio, ti riconosco come la divinità che, a sua volta, fa parte di me).

4.  L’importanza della gratitudine personale

Passiamo la vita a ringraziare per gli altri, per la dedizione della famiglia, per l’altruismo dei nostri amici, per l’affetto del partner o per quelle persone che entrano ed escono dalla nostra vita arricchendola con i loro piccoli gesti.

Ora, vi siete mai concessi l’occasione di ringraziare voi stessi? Pensate che sia un atteggiamento egoista e un po’ fuori luogo? Assolutamente no. Non importa che siate religiosi, scettici o spirituali, l’auto-gratitudine non infrange nessuna regola, anzi, è un pilastro fondamentale con cui rafforzare la propria autostima.

Che ne dite se a partire da questo momento iniziaste a comportarvi in modo più umile e a valorizzare le cose più semplici della vita? Ringraziate anche per la brezza fresca che vi dà sollievo d’estate, per la buona decisione che avete preso da poco, siate grati per la vostra famiglia, per l’animaletto che avete a casa e che vi dona tanto affetto.

Siate grati per il semplice fatto di esistere, per il fatto di stare bene, di capire che non siete più quelle stelle fugaci che vanno e vengono, ma che cercano di vivere la vita al massimo.

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03 Marzo 2023 – Redazione

L’importante premio che viene consegnato ogni anno nella famosa città termale di Berkeley Springs, nel West Virginia, ha assegnato anche quest’anno la medaglia d’oro all’acqua Smeraldina, di Tempio Pausania (Sardegna), eleggendola ancora una volta miglior acqua minerale naturale al mondo, CHE SI TROVA SOLO IN SARDEGNA PERCHÉ, PER SCELTA, NON COMMERCIALIZZATA A PIÙ AMPIO SPETTRO. 

La competizione – considerata la più grande e importante degustazione e competizione d’acqua a livello mondiale – esamina centinaia di acque provenienti dagli Stati Uniti e da tutto il mondo.

“Questa seconda medaglia d’oro” – hanno  commentato i titolari della prestigiosa azienda sarda – “ha decretato nel modo più autorevole l’eccellenza della nostra acqua e del territorio incontaminato nel quale nasce”.              Smeraldina è da anni stabilmente sul podio delle migliori acque minerali del mondo, essendo stata premiata in precedenza anche con medaglie di bronzo e argento. Le giurie di anno in anno sempre diverse, avvalorano le scelte e dimostrano il calibro straordinariamente alto delle acque premiate”.

I fratelli Solinas, che gestiscono l’azienda, hanno dedicato il premio ai loro genitori, fondatori dell’azienda stessa, che hanno costantemente guidato il lavoro di chi partecipa alla realizzazione di questo grande sogno chiamato Smeraldina, la migliore acqua minerale del mondo. Il premio rappresenta quindi un tributo alla passione e all’impegno che hanno permesso all’azienda di diventare una delle eccellenze italiane del settore.

CONOSCIAMO L’ACQUA SMERALDINA

L’ acqua oligominerale naturale Smeraldina nasce in Sardegna, un’isola nota nel mondo per le sue bellezze naturali, per le sue antiche tradizioni e per l’alto numero di ultracentenari. La sorgente si trova a Tempio Pausania, in Gallura, lontano da grandi città, da industrie e altre fonti di inquinamento, dove l’aria è resa tersa e fresca da venti costanti, così forti da piegare le querce e modellare le rocce. Smeraldina sgorga qui, a trecento metri di profondità, nel cuore incontaminato di una montagna che era considerata sacra dagli antichi: il Monti di Deu, la Montagna di Dio. Il granito più puro e compatto del pianeta la filtra e la arricchisce con un lunghissimo processo naturale, conferendole proprietà eccezionali.

I BENEFICI

  • È batteriologicamente pura, garantita da 100 controlli giornalieri
  • Contiene calcio, che aiuta a rafforzare la struttura ossea
  • Ha un equilibrato contenuto di ferro per la vitalità e la crescita armoniosa dell‘intero organismo
  • Remineralizzante favorisce la rigenerazione dei tessuti
  • Ha un equilibrato contenuto di sali minerali che ricarica l’organismo di energia
  • Contiene potassio che stimola il benessere dei muscoli
  • Contiene iodio che aiuta a regolare il consumo di ossigeno e il metabolismo energetico
  • È idratante e rinfrescante e favorisce l‘eliminazione delle tossine
  • È fonte di magnesio che favorisce il benessere di mente e corpo
  • Contiene zinco che potenzia la risposta immunitaria
  • È depurativa facilitando la diuresi
  • Contiene fosforo che migliora la memoria e favorisce una vita più serena

LE CARATTERISTICHE 

Smeraldina è incredibilmente pura, fresca, ottima al gusto. Il perfetto equilibrio di sodio, di cloruri, di bicarbonati, di calcio e di magnesio, e l’ideale percentuale di potassio, la rendono benefica per l’organismo, a qualunque età.

Non a caso è stata eletta miglior acqua minerale del mondo al Berkeley Springs International Water Tasting Competition, la più importante e autorevole competizione per acque minerali a livello mondiale, aggiudicandosi la medaglia d’argento e la medaglia d’oro assolute, per due anni consecutivi.
Inoltre, la prestigiosa rivista americana Gayot, che da cinquant’anni è un punto di riferimento autorevole e indiscusso per tutti gli amanti del buon vivere, ha inserito Smeraldina nella classifica delle migliori dieci acque minerali del mondo.

Analisi chimica e chimico-fisica

Residuo Fisso a 180° mg/l 157
Temperatura alla sorgente °C 19,2
Acidità pH 6,5
Conducibilità elettrica µS/cm 20°C 287
Anidride carbonica libera mg/l 54,8
Bicarbonati mg/l 72,6
Solfati mg/l 8,8
Sodio mg/l 29,0
Potassio mg/l 1,4
Calcio mg/l 14,3
Magnesio mg/l 8,0
Fluoruri mg/l 0,2
Silice mg/l 17,3