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23 Marzo 2023 – Redazione – Marzia MC Chiocchi

 

In vista del Consiglio europeo, calendarizzato il 23 e il 24 marzo, martedi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riferito le priorità italiane al Senato e ieri lo ha fatto alla Camera.

Il prossimo vertice a Bruxelles, per la premier, è il momento in cui, in teoria, andrebbe fatto un salto di qualità sui temi dell’immigrazione e del Patto di stabilità. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in una lettera indirizzata ai 27 Paesi membri, ma soprattutto all’Italia, ha annunciato «un nuovo sostegno pari a 200 milioni di euro che sarà focalizzato sull’assistenza all’accoglienza» e l’«accelerazione dell’attuazione del meccanismo volontario di solidarietà per i ricollocamenti dei migranti». E l’Italia prende un altro schiaffo, non volendo agire con il pugno di ferro sul blocco delle partenze dal Nordafrica. È inutile ricevere aiuti! Servono solo a creare associazioni e realtà che speculano sugli immigrati, e sacche di nuovi abbandonati a se stessi, pronti a creare problemi! MA ORMAI ABBIAMO CAPITO CHE L’UE VUOLE QUESTO, E L’ITALIA NE È COMPLICE! Ma dov’è il blocco navale di cui parlava Giorgia Meloni non in veste di Premier, ma da segretario di partito?


ANALIZZIAMO DA DOVE TUTTO È PARTITO ⤵️

Cos’è e quando è stato firmato il trattato di Dublino?

«È il regolamento dell’Unione Europea che stabilisce criteri e meccanismi per l’esame, e l’eventuale approvazione, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo. Nasce dalle ceneri della Convenzione firmata nella capitale irlandese il 15 giugno 1990, ovvero dal primo trattato internazionale multilaterale firmato dagli allora dodici membri della Comunità europea per darsi regole comuni sull’asilo. In vigore nel 1997, è stato sostituito nel 2003 dal regolamento «Dublino II» che l’ha portato nell’ambito delle competenze dell’Ue. Una terza revisione – «Dublino III» – è stata varata nel giugno 2013».

Cosa stabilisce per quanto riguarda i richiedenti asilo?

«Il principio chiave è dettato dall’articolo 13. «Quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». In altre parole, la responsabilità dell’asilo è del Paese di primo sbarco. Ovvero: chi arriva in Italia tocca all’Italia, chi in Spagna alla Spagna e via…»

Quali le situazioni che hanno portato alla sigla del trattato?

«Nel preparare i trattati istitutivi della Cee, poi firmati a Roma nel 1957, gli Stati fondatori hanno deciso di tenere per sé una serie di politiche anche rilevanti, fra cui l’Immigrazione. Non una cosa da poco, se si pensa che solo nei primi quindici anni del secondo dopoguerra il Belgio accolse circa 200 mila italiani. Quando si arriva alla vigila del mercato unico, si pone l’esigenza di regolare l’asilo. Si tratta di evitare il turismo delle richieste, dunque stabilire che ogni straniero possa chiedere il permesso in un solo Paese. In caso di rifiuto, deve avere una seconda opportunità. È allora che si stabilisce il principio del primo approdo».

Fu una decisione difficile? E quali Paesi spinsero di più per arrivare all’intesa?

«Fu una decisione necessaria. Venticinque anni fa furono soprattutto i tedeschi, freschi di riunificazione ed esposti agli effetti della caduta della Cortina di Ferro, a spingere per regole precise. Oltretutto, dal gennaio 1993, nella Comunità europea s’iniziava la libera circolazione dei cittadini. La repubblica federale era già meta richiestissima, anche se la domanda allora era tutta dall’Est. Per l’Italia, la Convenzione fu un campanello d’allarme. La migrazione era prevalentemente albanese e controllabile. Per il resto si lasciava spesso correre, prassi alla quale «Dublino» costrinse a mettere in parte fine.

Cos’è cambiato in questi anni da mettere in discussione il trattato?

«Il contesto mediterraneo, africano e mediorientale. In anni recenti la guerra in Siria, le dittature in Eritrea e nella parte centrale del continente nero, l’instabilità afghana e pachistana, le primavere arabe tradite, hanno gonfiato il flusso dei migranti che, sino a giorni non lontani, erano in prevalenze gente a caccia di un lavoro. La caduta del regime di Gheddafi ha aperto la porta libica. I popoli in fuga hanno cominciato ad arrivare in Italia e Grecia. Più recentemente, soprattutto per l’offensiva dell’Isis in Siria, si è affollata la via balcanica. Il dato è che milioni di persone fanno la fila per cercare la pace nell’Unione».

Cos’è che non funziona? Perché è considerato uno strumento superato?

«Anzitutto viene contestato l’obbligo del Paese di primo approdo di gestire tutti gli accessi e accogliere chi arriva, sia l’Italia, la Grecia o l’Ungheria, alfieri europei più esposti agli sbarchi e desiderosi di maggiore solidarietà. In seconda battuta, lo stesso precetto impedisce di diritto la possibilità di arrivare a un meccanismo di emergenza che conduca alla redistribuzione obbligatoria di parte dei rifugiati nei momenti di maggiore crisi, ipotesi suggerita da Francia e Germania. Berlino continua a ripetere che «Dublino» è in vigore e la ripartizione obbligatoria verrebbe a valle della sua applicazione. L’Italia ne chiede la revisione: un trattato vecchio, si fa notare, per un mondo cambiato».

Ma chi ha firmato nel 2013 il nuovo Trattato di Dublino, denominato III, alla scadenza naturale dei 10 anni dal precedente?

Pochi documenti hanno influenzato le sorti attuali dell’Italia di quanto non abbia fatto il trattato di Dublino, di cui però l’italiano medio ha sentito parlare solo molto tardi, quando ormai la ratifica era lontana nel tempo e le responsabilità fumose e difficili da assegnare. Quello che si sa di sicuro è che attualmente è in vigore il Dublino III, firmato dal governo di Enrico Letta (ministro degli interni Angelino Alfano, ministro degli esteri Emma Bonino), che ribadisce il principio di responsabilità permanente del paese di primo approdo dei migranti, definendolo «una pietra miliare». Di suo, vi aggiunge il criterio della tutela dei minori e del ricongiungimento familiare per stabilire la competenza dei paesi a concedere il diritto d’asilo (competenza ad accogliere persone con le carte in regola, già identificate e vagliate dai paesi di primo approdo).

Ma il difficile è risalire alla responsabilità iniziale per la «pietra miliare» che rende il paese di primo approdo la discarica dell’Unione europea (adesso praticamente solo l’Italia, da quando la Grecia può spedire gli irregolari in Turchia, pagata miliardi dall’Ue per tenerseli. La Spagna comincia ad avere dei flussi in più da quando Minniti ha fatto l’accordo con i libici: circa 8 mila quest’anno, il doppio dei loro arrivi nel 2016, ma sempre un’inezia rispetto agli sbarchi in Italia).

Il trattato di Dublino III è stato siglato nel 2013 perché quello precedente aveva una scadenza: dieci anni.

Il Dublino II era stato infatti firmato nel 2003 dal governo Berlusconi (ministro degli interni Giuseppe Pisanu, ministro degli esteri Gianfranco Fini), e si basava a sua volta sul precedente documento, che si chiamava non Trattato ma Convenzione di Dublino. A questo il trattato firmato dal governo di centrodestra aveva aggiunto l’obbligo di prendere le impronte digitali. Adesso sembra un’ovvietà ma allora erano forti le polemiche dei garantisti per i quali è una discriminazione prendere le impronte ai soli extracomunitari. Esse però sono servite a creare per la prima volta una banca dati ottenendo così l’emersione di identità e pratiche multiple.

Ma il principio che lega per sempre il migrante al paese di primo approdo non nasce neppure nel 2003, risale al 1° settembre 1997, quando andò in vigore l’originaria Convenzione di Dublino. Quell’anno in Italia era giunta un’ondata di migranti albanesi (scatenata dallo scandalo finanziario delle «piramidi») che per la prima volta non fu respinta dal governo dell’epoca, il Romano Prodi I (ministro degli interni Giorgio Napolitano, ministro degli esteri Lamberto Dini), ma lasciata sostanzialmente sulle spalle delle Caritas e delle parrocchie, prevalentemente pugliesi.

Dunque la Convenzione che andò in vigore nel 1997 era stata originariamente firmata nel lontano 1990, quando era al potere l’ultimo governo di Giulio Andreotti, l’Andreotti VI (ministro degli esteri Gianni De Michelis, Psi, ministro dell’interno Vincenzo Scotti, Dc). Come fa notare Claudio Borghi Aquilani sul suo account Twitter, all’epoca non solo non c’erano barconi di migliaia di uomini lanciati quotidianamente verso le coste dell’Italia, ma non esisteva neppure il concetto dell’entrata libera in un paese senza passare dall’ufficio passaporti e dal visto del paese ricevente.

Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi diceva cosa fare nei confronti degli irregolari: «Art.6. Se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro». All’epoca era una norma di semplice buon senso, c’erano ancora le frontiere anche all’interno dell’Europa, figuriamoci se si poteva entrare tranquillamente dall’esterno, tant’è vero che proprio quel governo lì fece fronte l’anno dopo al primo monumentale sbarco degli albanesi in Puglia. Era l’agosto 1991 e il Viminale dispose un ponte aereo che in una sola notte riportò in Albania 17.467 persone arrivate in Puglia sei giorni prima, con l’impiego di 3 mila uomini e l’intera 46esima aerobrigata, in tandem con l’Alitalia.

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14 Marzo 2023 – Redazione – di Claudio Pira (sito: eventidimenticati.it)

 

Quando gli Stati Uniti entrarono a far parte delle coalizioni coinvolte nella seconda Guerra Mondiale, precisamente il 7 dicembre del 1941, tra i molti provvedimenti che il governo di Roosevelt prese in quel momento ce ne fu uno molto particolare, che si ricollega al titolo dell’articolo: donare bottigliette di Coca-Cola al suo esercito. Ma perché? E quale risultato ebbe tale “politica bellica”?

Gli stratagemmi americani in guerra

Come già anticipato, il governo statunitense all’epoca presieduto dallo storico presidente Franklin Delano Roosevelt ebbe un’idea alquanto particolare per sostenere le truppe in Europa e tenere loro alto il morale. Il gabinetto di governo iniziò a pensare ad una serie di stratagemmi per migliorare morale e integrità del proprio esercito in un continente lontano, facendo loro capire l’importanza del conflitto e allo stesso tempo dimostrando loro che il proprio governo continuava a sostenerli a distanza, anche e soprattutto con dei piccoli gesti. Fu così che venne presto proposta l’idea di considerare lo zucchero come materiale effettivamente utile ad uno sforzo bellico molto grande come quello che appunto avrebbero dovuto affrontare ben presto i soldati nel continente europeo. Razionare lo zucchero per l’uso civile era l’unica soluzione per far sì che gran parte della sua produzione venisse poi distribuita anche ai soldati in guerra. Questo espediente in realtà era già stato utilizzato durante la prima guerra mondiale, ma in minima parte.

Tuttavia non fu facile per il governo e le aziende nazionali fornire un quantitativo così grande di zucchero lavorato, facilmente conservabile e allo stesso tempo invitante da assumere. Fu così che si pensò di coinvolgere le due più grandi aziende americane che lavoravano e utilizzavano lo zucchero per la creazione di bevande alimentari molto diffuse tra la popolazione e ben accette da tutti: stiamo parlando di Coca-Cola e Pepsi Cola, nate rispettivamente ad Atlanta nel 1892 e in Nord Carolina nel 1893.

Queste due aziende, seppur grandi e ben diffuse su tutto il territorio americano, necessitavano continuamente di dolcificante per preparare le proprie bevande da distribuire, ora non soltanto più sul mercato nazionale ma anche a tutti i soldati coinvolti nel conflitto in Europa. Fu così che ben presto, prima della messa a punto del piano di governo per i soldati, entrambe ebbero molta difficoltà a produrre quantitativi ottimali per il rifornimento delle truppe. Per ovviare al problema, fu proprio l’industria della Coca-Cola che in primis riuscì a convincere l’amministrazione degli Stati Uniti dell’importanza del piano di rifornimento dello zucchero, al fine anche dell’aumento delle prestazioni sportive/belliche, oltre che per il morale delle truppe al fronte. Roosevelt doveva fare qualcosa per mettere in atto il piano che il suo governo aveva varato: le industrie avevano dato la loro disponibilità a collaborare, ma per realizzarlo doveva sostenerle maggiormente, fornendo loro più materie prime.

Il progetto dunque non si spense e, dopo una serie di problematiche iniziali la Coca-Cola per prima concluse con il governo un contratto di fornitura delle proprie bibite per tutte le forze armate americane coinvolte nel conflitto mondiale, il quale gli permise di poter usufruire illimitatamente di tutto lo zucchero necessario per la produzione anche di quelle messe normalmente in vendita negli scaffali dei supermercati, senza che nessuno ci facesse realmente caso. Inoltre, alcuni impiegati della Coca-Cola tra i più preparati, furono anche inviati nel vecchio continente sotto forma di “ufficiali tecnici” contribuendo all’installazione di numerosi impianti di imbottigliamento in diverse località d’oltremare.

La strategia della grande multinazionale era chiara: non soltanto sfruttare i benefici statali per vendere sempre più bottiglie, ma anche porre le basi di una sua futura espansione soprattutto dopo il conflitto armato, facendo sì di sbaragliare un eventuale concorrenza futura. Tutti avrebbero avuto a che fare con il marchio “Coca-Cola”, a partire dai soldati, fino ai civili nel periodo della ricostruzione!

La reazione sulle truppe

Ben presto, in migliaia di lettere inviate a casa dai militari in guerra espressero un enorme stupore e soddisfazione per la distribuzione ad un prezzo praticamente regalato di Coca-Cola (c’è chi ci parla di pochi franchi e chi dice di averla ricevuta gratis con il proprio pasto), segno che il piano stava dando i suoi frutti sul morale.

Ecco, ad esempio, una lettera proveniente dalla collezione d’archivio del Museo Nazionale della Seconda Guerra Mondiale che mette bene in luce l’effetto della bevanda zuccherata sul morale di un anonimo militare ⤵️
“Dear Folks, You’ll never guess what I had to drink this evening. Not whiskey, not gin, not Calvados, not beer, but good old fashioned “Coca-Cola” in the bottle that’s made to fit the hand. Just a few moments before we left our staging area to board the boat Dick and I bought two Cokes, and drank them to the next time we’d be drinking bottled Cokes, believing that that would be in the USA. But not so! As part of our PX ration this week each man received two Cokes for which he paid four francs, and although some people may debate whether rye or bourbon are America’s national drinks, when I saw the excitement caused by a case of Cokes and the remarks about the corner drugstore, I did not think the national drink was quite that strong!”

(Cari ragazzi, non indovinerete mai cosa ho dovuto bere questa sera. Non whisky, non gin, non Calvados, non birra, ma la buona “Coca-Cola” vecchio stile nella bottiglia che è fatta per adattarsi alla tua mano. Pochi istanti prima di lasciare la nostra area di sosta per imbarcarci, Dick ed io abbiamo comprato due Coca-Cola, e le abbiamo bevute fino alla prossima volta che avremmo bevuto Coca-Cola in bottiglia, credendo che sarebbe stato negli USA. Ma non è così! Come parte della nostra razione PX questa settimana ogni uomo ha ricevuto due Cokes per le quali ha pagato quattro franchi, e anche se alcune persone possono discutere se il rye o il bourbon siano le bevande nazionali dell’America, quando ho visto l’eccitazione causata da una cassa di Cokes e le osservazioni sul drugstore all’angolo, non pensavo che la bevanda nazionale fosse così forte!”

Dalla distribuzione alle pubblicità “soft”

In effetti, le pubblicità della Coca-Cola durante la guerra affrontavano i temi più delicati del conflitto. Piuttosto che mostrare soldati stanchi a causa della guerra che si godono la loro bottiglia, la compagnia si concentrò sulla capacità della Coca-Cola di unire persone e nazioni, come si vede nelle pubblicità che ritraggono i soldati che si mescolano e ridono con inglesi, polacchi, sovietici e altri alleati (dall’Alaska e dalle Hawaii al Brasile e alla Cina), sempre con una didascalia del tipo: “Have a ‘Coke’ – un modo per dire che siamo con voi”. La Coca-Cola Company approfittò anche del suo consolidato slogan “La pausa che rinfresca” applicandolo ai lavoratori del fronte interno, spesso donne, incoraggiate a prendersi una pausa dalla costruzione di aerei e navi con la famosa bevanda zuccherata. L’idea dietro le pubblicità, supportata da un progetto di ricerca scientifica completato nel 1941 dai dirigenti della Coca-Cola, era che i lavoratori del fronte interno e i soldati avrebbero lavorato in modo più efficiente se avessero avuto un momento di pausa per rinfrescarsi con una Coca-Cola. Una pubblicità dell’epoca infatti recita: “Gli uomini lavorano meglio rinfrescati… Una nazione in guerra attua uno sforzo produttivo con un nuovo ritmo… In tempi come questi la Coca-Cola sta facendo un lavoro necessario per tutti i lavoratori”.

Mentre la Coca-Cola Company era impegnata a risollevare il morale delle forze combattenti americane, stavano contemporaneamente gettando le basi per diventare un simbolo internazionale di ristoro e solidarietà. Molti degli impianti di imbottigliamento stabiliti all’estero durante la guerra hanno continuato a funzionare come fabbriche dopo la sua fine. Inoltre, i militari che piano piano liberavano le città di tutta Europa o lavoravano fianco a fianco con la gente del posto si sono sentiti orgogliosi di condividere la loro bevanda preferita con i loro nuovi amici, creando così un’enorme base di consumatori in tutto il mondo che non sarebbe stata possibile senza la cooperazione dello stesso generale Eisenhower in Europa e della stessa Coca-Cola Company nel lavorare per migliorare il morale del combattente americano.

Con una mossa brillante e allo stesso tempo lungimirante, quella che oggi può essere giustamente considerata come una delle più grandi multinazionali al mondo riuscirà ad imporsi come industria leader nel secondo dopoguerra. Si calcola che durante la seconda Guerra Mondiale furono consumate dai soldati americani circa 10 miliardi di bottigliette di Coca-Cola, alcune delle quali possono ancora essere ritrovate in diversi siti bellici dedicati alla Seconda Guerra Mondiale. Una cosa però è certa: grazie a questa brillante mossa di marketing, tutti dopo il 1945 avrebbero conosciuto ed apprezzato il marchio Coca-Cola nel mondo!

Fonti:

http://www.nww2m.com/2011/08/coca-cola-the-pause-that-refreshed-2/

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12 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: Sito Corvelva

Nel 2014 in Kenya alcuni medici e 27 vescovi denunciarono il governo, l’OMS e l’UNICEF per aver somministrato a oltre un milione di donne un vaccino contro il tetano contenente un antigene che produce anticorpi abortivi.

In un momento in cui tutti i riflettori sono puntati sul vaccino contro il Covid-19 e i media mainstream si accollano l’onere di evidenziare tutta la misericordiosa filantropia di personaggi come Bill Gates e la ricerca dei vaccini che salverà l’umanità dall’estinzione; in un momento in cui il dr. Tedros Ghebreyesus, direttore dell’OMS, è impegnato nel raccogliere fondi da varie Nazioni per poterli mettere a disposizione dell’industria farmaceutica, twittando ringraziamenti ai capi di Stato che aderiscono a questa sorta di grande evento filantropico mondiale; noi vogliamo ripescare invece qualche scheletro nell’armadio che, fatalmente, coinvolge gli stessi attori in campo.

In particolare la mente torna a ciò che accadde nel 2014 in Kenya, quando alcuni medici e 27 vescovi denunciarono il Governo, l’OMS e l’UNICEF per aver somministrato a un milione di donne un vaccino contro il tetano contenente un antigene che produce anticorpi abortivi. Queste donne (tra cui molte ragazze) ricevettero a loro insaputa un vaccino sperimentale che si scoprì essere in grado di sterilizzare la popolazione femminile. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ricostruire i fatti, tenendo bene a mente i nomi e le istituzioni coinvolte.
Perché indagarono? Cosa non quadrava? Anzitutto le modalità di gestione dei vaccini e delle loro somministrazioni: le fiale arrivavano scortate dalla polizia, venivano somministrate da operatori anch’essi scortati, anzichè dall’usuale personale medico ospedaliero; in più, le dosi previste erano ben 5 in 6 mesi, a fronte delle solite 3 dilazionate negli anni e, soprattutto, le destinatarie della campagna straordinaria erano solo donne e solo in età fertile (14-49 anni).

A lanciare l’allarme in aprile era stata l’Associazione dei medici cattolici e la Conferenza episcopale del Paese che, insospettita dalla prassi e della mancanza di un’emergenza tetano, aveva fatto analizzare 6 campioni di vaccini in laboratorio, scoprendo così che questi vaccini erano prodotti unendo al tossoide tetanico anche l’ormone Beta-Hcg, ormone necessario per la gravidanza. In questo modo l’organismo avrebbe attivato una risposta anticorpale contro lo stesso ormone, impedendo futuri concepimenti. Riuscirono ad inviare diversi campioni del vaccino in diversi laboratori e a trovare così conferma ai loro sospetti.
Un comunicato dell’Associazione dei medici cattolici del Kenya ha reso noto infatti che i risultati confermarono la loro peggiore paura:

“La campagna dell’OMS non mira a sradicare il tetano neonatale ma è un ben coordinato ed efficace tentativo di sterilizzazione di massa per il controllo della popolazione”

Va notato che l’UNICEF e l’OMS distribuiscono vaccini gratuitamente in diversi Paesi in via di sviluppo e che sono previsti anche incentivi finanziari per i governi a partecipare a questi programmi.

Quando i fondi delle Nazioni Unite non sono sufficienti per acquistare le quote annuali di vaccini, un’organizzazione avviata e finanziata dalla Bill and Melinda Gates Foundation, il GAVI, fornisce finanziamenti extra per molti di questi programmi di vaccinazione nei “paesi poveri”.

Corvelva si è sempre chiesta: i grandi benefattori che oggi si sono spesi per propinarci un farmaco sperimentale contro quella che a sentir loro sembra essere stata l’epidemia del millennio, sono gli stessi che solo pochi anni fa perpetravano questi crimini contro l’umanità?
Cosa ci riportano alla mente questi fatti? Un interessante parallelo è forse possibile con quanto accaduto in Italia, a seguito delle analisi che Corvelva ha eseguito su diverse fiale e lotti vaccinali: il comune denominatore è il prodotto, il vaccino, che non si vuole e quindi non si deve mai mettere in discussione. Le analogie aumentano quando leggiamo un comunicato dei medici kenioti, che denunciano i tentativi di intimidazione subìti, con minacce di azioni disciplinari ai medici stessi. Molto familiare, se pensiamo all’atteggiamento inquisitorio degli ultimi anni contro coloro che si sono permessi in Italia di esprimere dubbi rispetto alla pratica vaccinale massificata.
Lì però la storia ha avuto un epilogo diverso, in quanto il Governo si è visto costretto a mettere fine alla sperimentazione in atto. D’altro canto i medici stessi sembrano meno propensi a pendere dalle labbra delle case farmaceutiche e delle organizzazioni internazionali di quanto non avvenga qui.
Suona strano per un occidentale pensare che in Africa vi siano medici e cittadini che non si fidano ciecamente dell’OMS e delle organizzazioni “umanitarie” (ONG), perché noi siamo abituati ad una narrazione che prevede che istituzioni come l’OMS siano salvifiche, che la popolazione, soprattutto nei Paesi più poveri, preghi per ottenere più vaccini e più aiuti. Siamo stati abituati ad immaginare una popolazione che non aspetta altro che essere inondata di programmi vaccinali, anche sperimentali, perché questa per loro sarebbe l’unica salvezza. Questo è ciò di cui tentano di convincerci. E invece ecco le parole di Stephen Karanja, presidente dell’Associazione dei medici cattolici del Kenya:

“La Chiesa africana è consapevole che non ci si può fidare dell’OMS… La campagna cominciata qui è identica a quella che fu portata avanti nelle Filippine, in Messico e in Nicaragua, sponsorizzata dagli stessi enti.”

Ricordiamo infatti che le medesime dinamiche si erano già presentate in questi Paesi negli anni ‘90.

Quindi, sembrerebbe che, chi ci viene da sempre presentato come più bisognoso di aiuto, sia anche avvezzo a diffidare dei cosiddetti benefattori e questo per un motivo molto semplice e chiaro: queste istituzioni sarebbero state protagoniste nella storia recente di nefandezze di cui però il resto del mondo viene difficilmente a conoscenza. Allora, visto che oggi stanno tutti finanziando questi stessi personaggi, aspettandosi il loro aiuto, è doveroso approfondire un po’ di più.

Per chi volesse, alleghiamo all’articolo che trovate sul sito un’intervista ufficiale del settembre 2017 di Raila Odinga (https://youtu.be/qrSnNwoVS-g), primo ministro del Kenya dal 2008 al 2013, che spiega l’accaduto e conferma la veridicità delle accuse: ascoltatelo, le sue dichiarazioni sono piuttosto pesanti.

In conclusione siamo a ribadire che l’aumento della sfiducia verso le istituzioni nazionali ed internazionali, verso le ONG filantropiche e verso alcune politiche sanitarie, è il risultato di un sistema che per anni ha elaborato e sponsorizzato programmi anche in contrasto con le libertà personali. In questo preciso periodo storico in cui la politica è indebolita, l’idea che la stessa oligarchia scientocratica, o peggio filantropia dittatoriale, riesca a dettare le politiche sanitarie mondiali, ci spaventa non poco.

CLICCATE SUL LINK PER SEGUIRE IL VIDEO SUL TEMA, PROVVISTO DI TRADUZIONE SOTTOTITOLATA ⤵️

https://rumble.com/v1a0ea2-infertility-a-diabolical-agenda.html

Fonti:

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